RELAZIONE FINALE
28 febbraio 1997
Riconoscimenti:
la Commissione ringrazia per la collaborazione prestata la Commissione
Tecnica per la Spesa Pubblica, lIstituto centrale di Statistica, lIstituto
di Ricerche sulla Popolazione, lIstituto Studi per la Programmazione Economica,
il Nucleo di Valutazione della Spesa Previdenziale, lOrganizzazione per
la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, la Ragioneria Generale dello Stato
e lUfficio Statistico delle Comunità Europee.
Le origini dei sistemi di benessere collettivo
Il secondo dopoguerra ha visto svilupparsi, in momenti diversi, nei
diversi paesi occidentali, sistemi complessi di protezione sociale.
L'obiettivo generale che tali sistemi di spesa sociale si sono dati è
stato di combinare il benessere con la coesione sociale. A questo fine,
si sono proposti di:
- attenuare gli effetti della povertà;
- promuovere la salute dei cittadini;
- promuovere la qualità di vita delle famiglie;
- promuovere le pari opportunità tra donna e uomo;
- promuovere l'istruzione dei giovani e la formazione degli adulti;
- assicurare contro i rischi economici conseguenti a:
* disoccupazione
* malattia
* invalidità
* vecchiaia
La fase di avvio dei sistemi di sicurezza sociale ha coinciso, generalmente,
con gli anni della ricostruzione e dello sviluppo industriale, in cui la
popolazione era più giovane e la crescita dell'intero sistema economico
era elevata. A questa condizione di rapido aumento delle risorse sistemiche
e dei redditi individuali, corrispondeva anche un numero limitato di eventi
negativi, ai quali la spesa sociale doveva far fronte. Con la prima crisi
petrolifera del 1973, i sistemi di sicurezza sociale dei paesi industrializzati
cominciano a misurarsi con una prospettiva di crescita limitata delle risorse
e con la necessità di contenere la crescita della spesa sociale,
proprio nel momento in cui maggiore diventa il numero degli eventi negativi
cui far fronte.
Comincia, dapprima, un processo di riflessione sulla possibilità
che la spesa sociale contenga un insieme di incentivi perversi volti a
ridurre la capacità potenziale di crescita delle economie e, poi,
un processo di revisione dei meccanismi di spesa finalizzato a contenere
tali incentivi perversi, riducendo le componenti legate a potenziali comportamenti
opportunistici individuali, introducendo incentivi a ridurre i tempi di
permanenza nelle condizioni di bisogno e, da ultimo, agendo anche sulla
riduzione delle aree di copertura dei rischi.
A distanza di quasi venticinque anni, questo lento processo è ancora
in corso. Esso trova ora giustificazioni aggiuntive, sulle quali ritorneremo,
in seguito.
La situazione italiana
In questo quadro generale, che, secondo modalità non radicalmente
dissimili, può riferirsi a tutti i paesi a sviluppo maturo (pur
considerando le differenze tra i diversi modelli di stato sociale), l'evoluzione
del sistema di sicurezza sociale in Italia presenta alcune peculiarità.
Anche se ormai è trascorso un secolo da quando, nel 1898, fu introdotta
la prima assicurazione sociale obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro,
il sistema di sicurezza sociale italiano si definisce nella sua completezza
solamente alla fine degli anni settanta di questo secolo con la istituzione
del servizio sanitario nazionale, ovvero quando negli altri paesi si palesano
i ripensamenti prima menzionati.
Fig. 2.1 Spesa sanitaria (in % del PIL)
Fig. 2.2 Spesa per pensioni e rendite (in % del PIL)
Fig. 2.3 Spesa per assistenza (in % del PIL)
In termini di contenuti, lo strumento principale di intervento è
costituito dalla spesa previdenziale. Come mostrano chiaramente le figure
1 e 2, allegate, poco meno dei due terzi della spesa per la protezione
sociale è costituito da pensioni e rendite, pur escludendo da questa
voce le pensioni di guerra, sociali, di invalidità civile, per ciechi
e sordomuti, che vanno considerate sotto la voce assistenza. Mentre la
spesa per la sanità ha raddoppiato in trentacinque anni il suo peso
in termini di Pil e quella per assistenza l'ha leggermente ridotto, la
spesa per pensioni e rendite si è moltiplicata quasi per quattro.
Negli ultimi trentacinque anni il sistema della spesa sociale si è,
quindi, concentrato sui rischi economici della vecchiaia. Attraverso il
sistema pensionistico ha sostenuto la ricchezza prospettica degli individui,
garantendo un più elevato reddito disponibile, che i lavoratori
dipendenti e, in misura più rilevante, quelli autonomi hanno potuto
proiettare permanentemente anche oltre il ciclo lavorativo della propria
vita. Nel caso degli autonomi, non tanto per l'entità delle pensioni
individuali, quanto per la innovazione che il sistema ha presentato per
tali lavoratori, ai quali veniva garantita la pensione indipendentemente
dagli anni di contribuzione.
Scarsi sono stati gli interventi a copertura degli altri rischi economici
individuali, se si escludono le integrazioni salariali per interruzione
temporanea del lavoro (CIG), che per quasi vent'anni sono state l'unica
forma di assistenza significativa.
Italia e Europa, un confronto
Osservata in prospettiva comparata, la situazione del nostro paese
appare caratterizzata da alcune vistose anomalie.
Per il complesso delle prestazioni sociali (nella definizione dell'Eurostat)
il nostro paese spende all'incirca un quarto del Pil; una spesa non dissimile
da quella media dei dodici paesi dell'Unione Europea nel 1994. L'Italia
non appare dunque "fuori linea" in termini aggregati, nè
per eccesso nè per difetto.
La grande anomalia della situazione italiana riguarda piuttosto la struttura
interna della spesa. I confronti europei mettono in luce infatti due marcate
distorsioni: una distorsione che riguarda i rischi ed una che riguarda
le categorie protette.
Per quanto riguarda i rischi, la quota di risorse destinata, nel nostro
paese, a proteggere "vecchiaia e superstiti" appare significativamente
più elevata che negli altri paesi: il 61,5% della spesa sociale
complessiva, di contro a una media comunitaria del 45,3%. La spesa a tutela
dei rischi "disoccupazione/formazione", "famiglia/maternità",
"abitazione" e "altra assistenza" riceve una proporzione
di risorse della spesa sociale di gran lunga più bassa che altrove
in Europa (il 18,4% contro il 31,9%). Per quanto riguarda la spesa sanitaria,
il nostro paese è in linea con gli altri. A essa viene destinato
dalla media dei dodici paesi europei circa un sesto della spesa sociale.
In termini di Pil, si tratta all'incirca del 5%, con una tendenza alla
diminuzione comune anche agli altri paesi OCSE.
Per quanto riguarda le categorie protette (seconda distorsione), rispetto
alle situazioni straniere si osserva un forte divario tra le prestazioni
previste per i lavoratori (o ex lavoratori) inseriti all'interno del mercato
del lavoro regolare (in particolare la grande impresa o il pubblico impiego)
e le prestazioni previste per gli altri lavoratori o per i non occupati.
La pensione di vecchiaia di un lavoratore "forte" può
essere fino a quattro volte superiore alla pensione sociale (negli altri
paesi il rapporto tende ad essere di uno a due). Per quanto riguarda la
tutela della disoccupazione, chi beneficia dell'indennità di mobilità
riceve in Italia più del doppio di chi riceve l'indennità
ordinaria (negli altri paesi esiste un trattamento uniforme per tutti i
lavoratori). Risalta poi anche l'assenza in Italia di uno schema di reddito
minimo per chi è totalmente sprovvisto di mezzi, nonchè di
una rete adeguata di servizi per le famiglie. Tutti i paesi europei più
sviluppati dispongono di questo tipo di schemi e servizi.
In termini comparati, dunque, la situazione della spesa sociale nel nostro
paese appare sbilanciata a favore delle pensioni e, quindi, prospetticamente
più fragile a causa della stretta dipendenza del sistema pensionistico
dall'invecchiamento più rapido della popolazione. Nello stesso tempo,
la situazione della nostra spesa sociale appare anche quella più
costosa da correggere; da un lato, in quanto trattasi di spesa in larga
misura predeterminata e, dallaltro, per gli effetti di ritorno che una
sua correzione può manifestare come conseguenza della distorsione
relativa alle categorie protette, dei conseguenti conflitti politico-sociali,
che possono essere facilmente indotti tra diversi gruppi della società,
e, infine, come conseguenza della competizione nella rappresentanza politica,
che può innescarsi.
Le tendenze comuni ai paesi maturi
Queste difficoltà specifiche per il nostro paese si sommano
alle tendenze comuni fra i paesi a sviluppo maturo, tendenze che influenzeranno
negativamente la sostenibilità dei sistemi di sicurezza sociale.
Esse comporteranno l'emergere di fenomeni presenti e prospettici, ormai
ben noti. Dal lato della domanda, per tutti i paesi già industrializzati
i costi relativi dell'intero sistema di sicurezza sociale cresceranno per
l'invecchiamento della popolazione. E' nota a tutti la pressione finanziaria
che l'invecchiamento della popolazione eserciterà sui sistemi
pensionistici e sulle strutture sanitarie.
Forse un po' meno consueta, per l'opinione pubblica più ampia, è
la riflessione sul fatto che le reti familiari saranno meno estese nella
loro azione di supporto materiale, proprio come conseguenza della forte
caduta di natalità che metterà in evidenza nei prossimi decenni
un numero crescente di anziani sempre più longevi e senza figli.
Pochi sistemi di sicurezza sociale (tra questi quello tedesco) hanno già
affrontato il problema della possibile non autosufficienza di un numero
crescente di anziani soli.
Alcune stime effettuate presso la Ragioneria Generale dello Stato, sulla
base delle valutazioni del diverso fabbisogno di spesa per prestazioni
sanitarie per età e delle previsioni dell'andamento della distribuzione
per età della popolazione, segnala che la spesa sanitaria, in Italia,
nei prossimi venti anni potrebbe espandersi di mezzo punto percentuale
di Pil e di un altro punto nei venti anni successivi.
Lo stesse proiezioni demografiche applicate alla dinamica della spesa per
pensioni mostrano che, nel nostro paese, questa potrebbe crescere nel corso
dei prossimi venti anni di circa 1,5 punti percentuali di Pil. A differenza
della spesa sanitaria, la spesa pensionistica, man mano che va a regime
il passaggio al sistema contributivo, arresterebbe la sua crescita in termini
di Pil, stabilizzandosi, in momenti diversi di tempo e su livelli diversi
di spesa, a seconda delle ipotesi fatte sulla dinamica della popolazione.
Dal lato della offerta, i servizi di sostegno a situazioni di disagio
sociale assorbiranno sempre più risorse, in termini relativi, a
causa della più lenta crescita della produttività in questo
settore rispetto agli altri settori dell'economia.
I vincoli comuni
La redistribuzione delle risorse mondiali in modo meno ineguale di
quanto è avvenuto nel passato, non assume più l'aspetto di
un peggioramento della ragione di scambio dei paesi industrializzati, come
avvenne venticinque anni fa, ma quello di un allargamento della concorrenza
sui mercati dei prodotti manufatti ai paesi emergenti. La liberalizzazione
di tali mercati sta già dando benefici effetti sul commercio mondiale,
la cui crescita è stata in questi anni meno depressa dalla scarsa
crescita dei paesi più maturi. La stessa liberalizzazione seleziona
i beneficiari di tale crescita sulla base delle capacità concorrenziali
sistemiche che ciascun paese maturo è in grado di manifestare. A
questo riguardo, l'onere di finanziamento della spesa sociale caricato
sulla produzione di prodotti e servizi commerciabili internazionalmente
dovrà, quindi, essere contenuto. Su un diverso piano, le condizioni
di ripresa della crescita economica così strettamente legate alla
liberalizzazione dei mercati dei beni e dei servizi, stanno spingendo tutti
i paesi a sviluppo maturo verso la ricostruzione di una maggiore efficienza
sistemica. Ciò comporterà un intenso spostamento di risorse
da un settore meno competitivo a un altro più competitivo, una profonda
trasformazione dei settori meno competitivi e contributi all'efficienza
generale che provengono anche da una amministrazione pubblica più
snella. Man mano che tali ristrutturazioni procederanno sarà necessario
un aumento della mobilità del lavoro; a regime la mobilità
tra le occupazioni che segneranno la vita individuale risulterà
più elevata che nei decenni passati.
La polarizzazione che si creerà tra lavoratori nei settori di successo
e quelli negli altri in declino, tra le occupazioni ad alto valore aggiunto
e quelle non qualificate, tra chi potrà cambiare con successo molte
posizioni di lavoro e chi sperimenterà lunghi periodi di disoccupazione
si trasformerà in una polarizzazione sociale complessiva, che potrebbe
spingere verso una distribuzione del reddito tendenzialmente più
ineguale.
A questi vincoli si sommano quelli posti dalle crescenti difficoltà
a redistribuire il reddito attraverso il sistema tributario, a causa della
mobilità dei fattori e dei conseguenti pericoli di competizione
fiscale, anche se nel nostro paese resta la necessità di proseguire
con azioni incisive di recupero dell'evasione. In ogni caso, per tutti
i paesi si porrà, quindi, il problema della individuazione di gerarchie
di obiettivi da perseguire sia all'interno della spesa sociale che tra
spesa sociale e altra spesa.
Le strategie per l'efficienza
Il primo passo che viene affrontato riguarda una maggiore efficienza
nella pubblica amministrazione, in generale, e, in particolare, nella erogazione
dei servizi sociali. Non si può trascurare il fatto che, in alcuni
paesi, questi miglioramenti di efficienza sono stati ricercati attraverso
il collocamento della produzione di alcuni di questi servizi sul mercato,
in particolare della sanità e della previdenza. Vale la pena di
sottolineare che in questo modo l'onere complessivo per il sistema economico
cambia solo nella misura in cui tali miglioramenti di efficienza (impiego
di minori risorse per fornire lo stesso servizio) si realizzano. Diversamente,
si tratta di scelte che afferiscono solamente alla redistribuzione di reddito
e sottraggono all'intermediazione dello stato il finanziamento di tali
spese.
La difesa della offerta pubblica di sanità, previdenza e assistenza
richiede, quindi, uno sforzo di efficienza interno alla amministrazione
pubblica e non si può escludere che, data la scarsità delle
risorse e la domanda crescente a ritmi crescenti, si renda necessaria la
concentrazione degli sforzi della collettività su aree più
delimitate di produzione pubblica, spostando nella sfera di produzione
privata, a esempio, altri servizi, che in modo più agevole possono
essere collocati sul mercato.
In altre parole, non potrà essere rinviata a lungo la scelta se
sia più opportuno conservare la sanità e la previdenza nella
sfera pubblica oppure conservare la produzione pubblica di energia, oppure
la consegna pubblica della posta, oppure ancora i trasporti pubblici e
così via ... Ci si dovrà domandare quale di questi diversi
contesti di organizzazione della offerta garantisce di più la coesione
sociale.
Un altro aspetto dell'efficienza sistemica può essere ricondotto
al problema della formazione e del modo di affrontare il rapporto individuale
con il lavoro. La immobilità del posto di lavoro con la ovvia conseguenza
della supremazia dell'impiego pubblico, che esalta tale immobilità,
è uno strumento perdente in questa sfida. Una condizione necessaria,
anche se non sufficiente per superare questa cultura del posto di lavoro
fisso, è fornita dal sistema formativo dei giovani, che dovrebbe
essere in grado di realizzare capacità personali, tali da integrare
conoscenze diversificate nel tempo e tornare a essere uno strumento di
mobilità sociale. Allo stesso tempo, anche il sistema della formazione
degli adulti dovrebbe contribuire offrendo le opportunità di
tale integrazione in fasi successive.
La convergenza europea dei sistemi di benessere collettivo
In termini di istituti, i sistemi di sicurezza sociale europei sono
diversamente predisposti ad affrontare gli effetti esercitati dalle tendenze
e dai vincoli menzionati. Al fine di stimolare una convergenza anche nella
spesa sociale e non solamente nelle condizioni finanziarie, l'Unione Europea
ha sollecitato i singoli paesi ad agire nella direzione:
- della ristrutturazione dei sistemi pensionistici obbligatori, volta
ad attenuarne la generosità a fronte dell'evoluzione demografica;
- dell'adozione di un approccio "contrattuale" e di forme di
"concorrenza amministrata" in seno ai sistemi sanitari pubblici,
onde promuoverne l'efficienza;
- del rafforzamento della "selettività" rispetto ai
mezzi negli schemi di integrazione del reddito ed un generale spostamento
di risorse dalla tutela dei tradizionali rischi "standard" delle
assicurazioni sociali alla protezione di nuovi bisogni (esclusione sociale,
perdita dell'autosufficienza ecc.) nonchè all'offerta di nuovi e
maggiori servizi alle famiglie;
- del passaggio da un approccio "passivo" ad uno "attivo"
nel disegno e nella gestione degli schemi di inabilità al lavoro
e di disoccupazione, al fine di prevenire sindromi di eccessiva dipendenza
dai sistemi pubblici di sostegno;
- della riforma dei meccanismi di finanziamento della protezione sociale,
al fine di renderla più "amichevole" nei confronti del
mercato occupazionale, ed in particolare lo sforzo di ridurre le imposte
e gli oneri sociali sul lavoro, per non disincentivare l'offerta di nuovi
posti.
La convergenza del sistema di spesa sociale italiano
Per quanto riguarda il nostro paese, le tendenze prima menzionate e
l'esigenza di una maggiore convergenza verso la struttura della spesa sociale
europea sollecitano uno spostamento della spesa verso gli ammortizzatori
sociali al fine di sostenere una maggiore mobilità occupazionale
e proteggere in modo sistematico dai rischi della povertà e verso
le politiche attive del lavoro.
Tutto ciò richiederà, da un lato, la riduzione delle risorse
destinate ad assicurare, tramite la previdenza pubblica, alle classi di
reddito medie un livello di reddito simile sul lavoro e in pensione
(il rischio economico della vecchiaia ipertutelato), per impiegarle
nella tutela del rischio economico reddito/occupazione, ora sottotutelato.
Dall'altro, si dovrà attenuare la generosità di alcune prestazioni
oggi previste per l'occupazione "standard" e accrescere (o introdurre
ex novo) la protezione per le categorie sociali oggettivamente più
deboli.
In altre parole, la mobilità occupazionale avrà un ritorno
sociale in termini di crescita complessiva, ma vi saranno dei costi pagati
individualmente di cui la collettività dovrà farsi carico.
I mezzi per farlo dovranno trovarsi nelle zone di privilegio che ancora
rimangono non solo all'interno della spesa sociale, ma di tutta la spesa
pubblica.
Nel procedere in questa direzione, il nostro paese dovrà trarre
profitto dall'esperienza di altri che sono già da diversi anni nella
fase di ristrutturazione delle regole di erogazione della spesa per ammortizzatori
sociali. La loro formulazione dovrà, infatti, tener conto della
necessità di evitare situazioni di "azzardo morale"
e di creare un sistema di incentivi che stimoli gli individui a uscire
dalla condizione di bisogno dell'intervento pubblico, in una adeguata combinazione
di diritti e di responsabilità individuali.
I vincoli macroeconomici di medio lungo periodo
Proiezioni meccaniche, molto caute, di evoluzione della spesa per la
protezione sociale nei prossimi tre anni indicano un ulteriore incremento
della quota di Pil destinata alla spesa per pensioni e una stabilità
delle altre voci. Il che, a sua volta, implica una tendenza all'aumento
della quota di spesa complessiva per la protezione sociale.
Tale aumento risulta decisamente marcato nel corso del 1996: +9,5% in termini
nominali. Rallenta nel corso del 1997 e si assesterebbe all'incirca al
5% annuo nel prossimo triennio. Ma non si deve dimenticare, come spesso
queste proiezioni siano state superate dalla realtà, per la natura
di spesa inderogabile, che pensioni e sanità assumono e che produce,
di frequente, indebitamenti pregressi poi assunti a proprio carico dal
bilancio dello stato.
In ogni caso, sono le tendenze di lungo periodo che segnalano possibili
situazioni di instabilità intrinseca dei sistemi di spesa sociale,
oppure una loro palese incompatibilità prospettica con vincoli macroeconomici.
A questo riguardo abbiamo già sottolineato che la tendenza di medio-lungo
periodo segnala la possibilità che nel corso dei prossimi venti
anni vi sia una espansione della spesa per pensioni e per prestazioni sanitarie
che aumenta di due punti percentuali del Pil. L'adeguamento del nostro
sistema di ammortizzatori sociali (mercato del lavoro e redditi, in generale)
potrebbe richiedere un'ulteriore espansione di circa 0,7 punti percentuali.
L'aumento tendenziale di 2,5/3 punti di Pil della spesa per la protezione
sociale sarebbe decisamente incompatibile con il mantenimento della attuale
pressione tributaria e contributiva, giudicata già politicamente
insopportabile, economicamente disincentivante e penalizzante per quanto
riguarda le capacità concorrenziali del nostro sistema economico.
Solo una rapidissima discesa dell'onere per interessi potrebbe aprire qualche
spazio nella struttura del bilancio pubblico, ma essa è raggiungibile
solamente con un aumento ancora più forte e permanente, di quanto
non stia avvenendo attualmente, dell'avanzo primario dei conti delle AP.
Il che, a sua volta, richiederebbe un contributo dalla spesa sociale al
risanamento dei conti pubblici, ancora più forte nel breve periodo.
A questo riguardo, non va dimenticato che quando sarà terminata
la discesa dei tassi di interesse italiani rispetto a quelli internazionali,
la riduzione dell'onere degli interessi su Pil dipenderà dalla discesa
del rapporto debito pubblico/ Pil; a sua volta, quest'ultima potrà
realizzarsi solamente se l'indebitamento netto primario in termini di Pil
eccederà la differenza tra costo medio del debito e tasso di crescita
del Pil.
L'azione che la Commissione suggerisce al Governo di adottare dovrebbe
essere, quindi, orientata su tre piani logicamente distinti:
- la neutralizzazione delle tendenze di medio periodo dell'aumento
delle quote di spesa per la sanità e, soprattutto, per le pensioni;
- la riduzione del ritmo di crescita attuale della spesa sociale quale
condizione per la ricostituzione, nei primi anni del prossimo secolo, dei
livelli di protezione sociale e per la messa a regime dei nuovi istituti
di assicurazione reddito/occupazione; quest'ultimo obiettivo richiederà
una gradualità nella loro introduzione, necessaria per consentire
una fase di sperimentazione, anche in aree limitate del paese, al fine
di mettere a punto le modalità pratiche di attuazione dei meccanismi
di controllo e incentivo. Ciò che in passato è successo per
le pensioni di invalidità è indubbiamente un monito.
Consideriamo ora, in termini sintetici, l'azione che la Commissione
suggerisce su ciascun comparto di spesa.
LE POLITICHE DEL LAVORO
Le misure selettive.
Il sistema degli incentivi per l'occupazione presenta nel nostro paese
numerosi limiti e difetti: c'è un uso indiscriminato e protratto
nel tempo degli incentivi, con il rischio di far sopravvivere situazioni
inefficienti a carico della collettività; l'accesso alle incentivazioni
presenta ostacoli procedurali che possono scoraggiare le aziende, specie
quelle di piccola dimensione. Infine, la graduale, ma rapida riduzione
delle agevolazioni e degli sgravi contributivi sin qui concessi e prevalentemente
concentrati nel Mezzogiorno.
Alcuni strumenti - come gli sgravi indiscriminati - vanno progressivamente
ma rapidamente eliminati, per aprire una fase nuova in questo campo. In
particolare:
- i beneficiari dovrebbero essere gradualmente sostituiti con specifiche
categorie di percettori, facendo riferimento, più che ai settori
produttivi, ai bacini d'occupazione locali (in relazione a interventi sul
tipo dei patti territoriali e dei contratti d'area) o ai giovani in cerca
di prima occupazione e ai lavoratori svantaggiati, anche seguendo al riguardo
le raccomandazioni dell'Unione Europea;
- va rafforzato il collegamento tra i regimi d'incentivazione e il quadro
comunitario di sostegno che passa attraverso i fondi;
- il sistema degli incentivi e in particolare i rinnovati contratti a
causa mista (CFL e apprendistato) vanno coordinati con la formazione professionale,
in modo da creare sinergie e dar vita a un pacchetto organico di aiuti
alla mobilità territoriale;
- le risorse per incentivazioni vanno evidenziate in un fondo per la
creazione di nuova occupazione da trasferire gradualmente alle regioni
secondo principi perequativi, affinchè impieghino tali risorse a
supporto della politiche locali per il lavoro.
Gli ammortizzatori sociali.
L'attuale sistema degli ammortizzatori sociali è un sistema
disorganico e quasi ingovernabile di strumenti, caratterizzato da successive
sovrapposizioni.
Vi sono innumerevoli iniquità di trattamento, ricollegabili in larga
parte al prevalere di meccanismi di pressione, che escludono i gruppi e
i soggetti meno rappresentati;
- la rigidità dei trattamenti costituisce, soprattutto nell'ambito
dei gruppi più tutelati, un oggettivo ostacolo ai processi di mobilità;
- le varie forme di sostegno non seguono un disegno logico per il reinserimento
lavorativo;
- nell'assenza di veri e propri strumenti di assistenza si verifica un
utilizzo improprio e "assistenzialistico" di strumenti che dovrebbero
avere natura temporanea e servire ai processi fisiologici di mobilità
e di reinserimento nel lavoro.
Attualmente, in molti paesi europei è in corso un'evoluzione verso
modelli più flessibili, che dovrebbero ridurre le inefficienze nel
mercato del lavoro. Anche in Italia, che è caratterizzata tra l'altro
da una struttura produttiva a forte presenza di piccole e medie aziende
interessate al sostegno di sospensioni temporanee, si può pensare
ad una evoluzione in questo senso.
Le linee su cui potrebbero muoversi le proposte di modifica degli strumenti
di garanzia del reddito, richiedono di organizzare gli ammortizzatori sociali
all'interno di un sistema strutturato su tre livelli, che riguardano nell'ordine:
1. i trattamenti in caso di sospensione temporanea con la conservazione
del rapporto di lavoro;
2. i trattamenti di disoccupazione riservati ai lavoratori che perdono
una precedente occupazione;
3. gli interventi di tipo assistenziale da erogare in caso di esaurimento
del diritto alle precedenti prestazioni.
Per quanto riguarda il primo livello, esso dovrebbe sostituire
con un istituto omogeneo le attuali erogazioni per la Cassa integrazione
ordinaria e innovare lattuale utilizzo dei contratti di solidarietà
destinandolo a una finalità più espressamente connessa ai
problemi delle riorganizzazioni aziendali.
La principale finalità dello strumento è rappresentata dall'esigenza
comune alle parti sociali di mantenere alcune prerogative di stabilità
del contratto e del reddito lavorativo, a fronte di una normale variabilità
del contesto economico in cui le imprese operano.
Per il tipo di obiettivo perseguito, questo strumento dovrebbe reggersi
su uno schema di tipo assicurativo, simile cioè all'attuale
modello della Cig ordinaria. Ciò significa che:
- le erogazioni devono tendenzialmente essere finanziate per intero con
un prelievo contributivo ricadente sui soggetti beneficiari dei trattamenti;
- il prelievo contributivo va caricato proporzionalmente sulle retribuzioni
e ripartito secondo percentuali da decidere tra datori e lavoratori;
- le prestazioni devono essere correlate, almeno entro un certo limite,
all'onere contributivo ricadente sui singoli individui.
La durata del sostegno: periodi limitati entro un tetto massimo di utilizzo
fissato in un intervallo predefinito di tempo (es. un massimo di 12-18
mesi nell'arco di un periodo di cinque anni).
Il tasso di copertura (rapporto tra livello dell'integrazione e retribuzione
di riferimento) deve essere decrescente nel tempo, mentre l'ammontare iniziale
della copertura, seguendo i valori medi adottati nei sistemi di altri paesi,
potrebbe inizialmente assestarsi intorno al 70% della retribuzione.
Nel secondo livello degli ammortizzatori sociali (il trattamento
generalizzato di disoccupazione) dovrebbero essere inglobate le diverse
forme (indennità ordinaria e speciale di disoccupazione, Cassa integrazione
speciale, indennità di mobilità) con cui la disoccupazione
è stata finora trattata nel nostro sistema. Per quanto riguarda
il prepensionamento, non si dovrebbero formulare più proposte di
tal genere, potenziando il part-time per i lavoratori anziani.
I punti da affrontare per strutturare questo nuovo istituto unificato per
il trattamento della disoccupazione sono:
- il metodo di finanziamento, che dovrebbe essere di tipo assicurativo,
o al più, parzialmente integrato con risorse di provenienza fiscale;
- la modalità di calcolo della prestazione, essendo il
meccanismo di finanziamento di tipo assicurativo comporta una correlazione
con le contribuzioni, simile a quella già definita per il primo
livello. La retribuzione di riferimento potrebbe essere la media di più
anni passati, rivalutata con l'inflazione.
- la misura dell'indennità, che dovrebbe gradualmente salire
ai livelli medi europei, in modo da permettere ai lavoratori beneficiari
di dedicare tutto il tempo necessario alla ricerca di una nuova occupazione.
Successivamente, l'ammontare dell'erogazione si riduce ed entrano in gioco
altri parametri (carichi familiari, impegno nel lavoro di cura, età
del soggetto, ecc), che inquadrano aspetti di effettivo bisogno e proiettano
nella direzione del sostegno assistenziale, che interviene dopo un biennio.
- un elemento di selezione particolarmente efficace dovrebbe essere
l'assoggettamento obbligatorio ai servizi per l'impiego erogati in funzione
della ricerca di un nuovo posto di lavoro, oltre che la disponibilità,
pena decadimento del beneficio, ad accettare forme di impiego anche a termine,
compatibili con la difesa della professionalità dei soggetti assistiti;
- il collegamento con il sistema dei servizi reali per l'impiego.
La definizione del terzo livello di intervento per il sistema
degli ammortizzatori sociali rinvia direttamente ai problemi concernenti
l'area dell'assistenza sociale.
La formazione professionale.
L'Italia è rimasto il paese che meno investe risorse proprie e meno
provvede in materia di formazione professionale. Ciò dipende da
molti fattori, tra i quali la mancata riforma della scuola secondaria superiore,
la mancata definizione da parte dello Stato delle qualifiche che devono
essere rilasciate dalle Regioni e avere validità sul territorio
nazionale, il mancato equilibrio tra formazione di base e formazione professionale.
Da tutto ciò deriva un oggettivo sottodimensionamento dell'offerta
di formazione professionale. L'Italia di situa al terz'ultimo posto, in
Europa, con una percentuale di cittadini sopra i 15 anni coinvolti in attività
di formazione pari soltanto al 12%.
Inoltre esiste un forte scarto tra le risorse programmate dalle Regioni
e quelle effettivamente spese, che mette in evidenza l'inefficienza del
sistema. Infine, grave è soprattutto l'incapacità delle Regioni
di utilizzare i fondi comunitari disponibili (solo il 17% delle risorse
comunitarie "impegnate" dalle Regioni nel periodo 1994-1996 è
stato poi effettivamente utilizzato).
L'investimento di risorse in questo campo non dovrà più essere
concentrato, come oggi, nella formazione professionale iniziale, concepita
come modalità di formazione riservata a chi ha abbandonato la scuola
post-obbligo, ma bisognerà sviluppare un sistema più organico
ed equilibrato, secondo le linee dellaccordo per il lavoro del settembre
1996:
1. potenziando la formazione superiore, ai livelli della scuola post-obbligo
e dell'Università;
2. offrendo una formazione effettiva nei "contratti a causa mista"
(contratti di formazione e lavoro e apprendistato), attraverso un sistema
di certificazione e riconoscimento di crediti formativi che permetta il
rientro nel sistema scolastico;
3. riformando lo strumento dei lavori socialmente utili, in vista di un
più efficiente sistema di formazione per adulti disoccupati, volto
a favorire il loro rientro nel lavoro.
4. dando vita a un sistema di formazione continua per i lavoratori occupati,
al fine di favorire la mobilità professionale.
Si deve pensare, dunque, ad una qualificazione, nei prossimi anni, della
spesa pubblica per la formazione professionale e la formazione lavoro.
A questo si può far fronte, come accennato, in vari modi:
- ricorrendo con maggiore efficienza e capacità di spesa ai fondi
comunitari disponibili;
- finalizzando alla formazione dei lavoratori disoccupati almeno una
parte dei fondi oggi spesi per i Lavori Socialmente Utili;
- aumentando il coinvolgimento finanziario delle aziende nei progetti
di formazione continua, rivedendo il sistema attuale di incentivazioni
e passando da sgravi incondizionati sul costo del lavoro ad un sistema
che premi l'impegno formativo profuso dall'azienda.
I nuovi servizi per l'impiego.
Per attuare con efficacia le politiche del lavoro sin qui menzionate
(incentivi, nuovi ammortizzatori e formazione professionale) occorre attivare
un sistema pubblico di consulenza e di promozione del lavoro, a servizio
sia dei lavoratori (dipendenti e autonomi), che degli imprenditori, rivolto
a migliorare l'utilizzo delle risorse umane. I nuovi servizi pubblici devono
essere fortemente decentrati - come prevedono laccordo per il lavoro e
le proposte di legge in discussione al Parlamento. Al potere centrale resteranno
i poteri di indirizzo generale, di controllo degli standard del servizio,
di ispezione e di riequilibrio delle risorse fra le varie regioni del paese.
In questo nuovo sistema potranno operare attori privati, compresi
organismi che siano espressione delle parti sociali, debitamente controllati.
Le linee generali della riforma del collocamento, che sono oggi sufficientemente
chiare e condivise, appaiono le seguenti:
- riunificazione delle competenze in materia di gestione del mercato
del lavoro in capo ai nuovo servizi per l'impiego;
- decentramento a livello locale del luogo in cui si decide e si gestisce
l'intervento pubblico in questo campo;
- offerta di servizi diversificati (di informazione, orientamento, "counseling"
avviamento al lavoro e promozione dell'occupazione) e non più attività
meramente certificatoria e burocratica;
- riqualificazione e ricollocazione del personale degli uffici;
- fine del monopolio pubblico del collocamento.
Per quanto riguarda i costi di tale riforma, va tenuta presente la complessità
del processo di riorganizzazione funzionale e amministrativa dei servizi
coinvolti e, in particolare, la necessità di garantire degli standard
sufficientemente uniformi dei servizi, nonchè di una informatizzazione
degli stessi su base nazionale. Ma, soprattutto, va tenuta presente l'esigenza
che i nuovi servizi dispongano di personale dotato di competenze diverse
da quelle utilizzate fino ad oggi.
Certo, una parte dei nuovi compiti potrà essere affidata ad agenzie
private specializzate. Tuttavia, questo non può significare la rinuncia
da parte del settore pubblico ad una sua importante e qualificata presenza.
In questo ambito, prevediamo una espansione della spesa per le politiche
attive del lavoro di un decimo di punto percentuale del Pil, nel corso
dei prossimi anni.
Conclusione.
Occorre restituire centralità alle politiche attive del lavoro,
come una componente essenziale dello Stato sociale, permettendo, così,
di caratterizzare meglio lo Stato sociale stesso in termini di passaggio
da una "spesa sociale passiva" o puramente "risarcitoria"
a una spesa sociale "più attiva" volta ad accrescere le
opportunità e a promuovere il cambiamento.
LA SPESA PER L'ASSISTENZA
La spesa per assistenza in Italia riflette un modello obsoleto, molto
distante da quello seguito dai paesi europei con i quali siamo soliti confrontarci.
Nell'ambito delle politiche sociali, essa ha un ruolo residuale, schiacciata
da un sistema pensionistico ingombrante e iniquo e un sistema sanitario
poco efficiente. Le risorse destinate a questo settore non sono molte (3,5%
del Pil) e mostrano un trend declinante rispetto al Pil (era il 5,4 % nel
1985). In prospettiva, sembra opportuno muoversi verso un incremento di
questi interventi, ma la necessità più urgente è una
profonda ristrutturazione del loro assetto, oggi fondato su un insieme
di istituti prevalentemente costituiti da prestazioni monetarie di tipo
"passivo", che non sono in grado nè di raggiungere apprezzabili
risultati redistributivi, nè di cogliere i veri bisogni dei beneficiari
dando loro concrete opportunità, in quanto possibile, di recuperare
autosufficienza.
La riforma deve ispirarsi ad una scelta equilibrata tra universalismo,
quanto ai beneficiari, e selettività, nell'erogazione delle prestazioni;
ridefinire i bisogni e i destinatari degli interventi rivolti alla cittadinanza
in generale (non solo anziani, ma anche altre figure sociali; non solo
sussidi monetari, ma sostegni mirati ai bisogni e alle funzioni di cura
che emergono nel ciclo di vita); sostenere radicalmente un approccio che
destini sempre più i trasferimenti dello stato a servizi erogati
a livello locale; valorizzare le funzioni di orientamento e programmazione
e scelte gestionali svolte a livello locale nell'ambito di un quadro legislativo
di indirizzo nazionale.
I cardini delle riforme proposte sono i seguenti.
I) Portare a compimento la separazione tra previdenza ed assistenza,
fondando il finanziamento della prima su forme contributive, e quello della
seconda sull'imposizione generale. In questo quadro vanno, in una prima
fase, rivisti i criteri e le modalità degli attuali trasferimenti
dal bilancio dello stato all'Inps e, successivamente, ridefiniti gli enti
gestori in un quadro di maggiore decentramento e in una prospettiva federalista.
II) Razionalizzare e unificare gli istituti di redistribuzione monetaria
esistenti, introducendo nuovi istituti, il Minimo vitale e il Fondo
per i non autosufficienti; attuare appropriate revisioni delle detrazioni
per figli a carico nell'ambito dell'imposizione personale; riformare,
nella fase transitoria, gli istituti esistenti, con particolare riguardo
alla definizione di criteri omogenei e affidabili di controllo delle risorse
dei beneficiari.
III) Potenziare il ruolo degli enti decentrati nell'offerta dei
servizi ai cittadini in condizioni di disagio, definendo un meccanismo
di finanziamento del settore, analogo a quello della sanità, che
attribuisca allo stato la funzione di indirizzo e sostegno, alla regione
il compito della programmazione e ai comuni, in primis, le funzioni di
orientamento degli interventi e quelle relative alle scelte gestionali
a livello della città e del territorio, in accordo con gli altri
enti locali e alle organizzazioni non profit pubbliche e private.
IV) Costituire un istituto nazionale, con la partecipazione degli enti
decentrati interessati (Regioni e Comuni), con lo scopo di ridefinire
e uniformare i criteri di misura e accertamento dei mezzi a cui è
subordinata l'erogazione delle prestazioni di sicurezza sociale e più
in generale dei servizi pubblici e di fornire supporto tecnico e informativo
agli utilizzatori.
Nel sistema italiano, a differenza di quanto accade in tutti paesi evoluti,
manca un istituto di Minimo vitale che assolva la funzione di una
rete di protezione, a cui qualsiasi cittadino, indipendentemente
dal genere, dalla classe sociale, dalla professione - in condizioni di
indigenza, per ragioni non dipendenti dalla propria volontà - possa
accedere per trovare un sostegno economico e/o l'offerta di opportunità
e servizi per uscire dallo stato di bisogno.
Il Minimo vitale che si propone è uno strumento indirizzato alle
fasce più deboli della società: aiuta tutti coloro che
hanno risorse inferiori ad una certa soglia di reddito ed è costruito
in modo da attenuare la trappola della povertà, perchè
reintegra solo parzialmente la distanza tra le risorse del soggetto e la
soglia di povertà.
Il Minimo vitale è un sussidio indirizzato agli individui maggiorenni,
il cui benessere è tuttavia valutato in base alle risorse del
nucleo familiare in cui è inserito e tiene conto del fatto
che le famiglie sono diverse, per numerosità, composizione e
carico di persone non autosufficienti o non ancora fisicamente autonome;
misura le risorse economiche della famiglia nel modo più corretto
possibile, fondandosi non solo sul reddito dichiarato ai fini dell'Irpef,
ma tenendo conto anche di altri elementi (redditi esclusi dall'Irpef, patrimonio
immobiliare, ecc.), cercando così di attenuare i problemi legati
all'accertamento delle risorse dei beneficiari.
Il Minimo vitale mira al reinserimento nel mondo del lavoro dei beneficiati,
perchè, nel caso di inoccupati non inabili in età da lavoro,
l'aiuto è concesso per un periodo limitato, solo se il nucleo familiare
si trova in condizioni di effettiva indigenza, ed è congegnato in
modo che il beneficiario sia responsabilizzato alla ricerca attiva di occupazione
e solo se è disponibile ad accettare offerte di lavoro, a partecipare
a lavori socialmente utili o a programmi di formazione. Esso tiene inoltre
conto dei bisogni e delle opzioni di scelta di chi svolge lavori di cura
nel nucleo familiare.
Il Minimo vitale è gestito dalle comunità locali,
in primo luogo dai Comuni, perchè queste sono più capaci
di cogliere le diverse esigenze delle persone che si trovano nello stato
di bisogno e perchè a questo livello è più facile
individuare le priorità a cui rispondere e identificare le forme
di gestione adatte per realizzare i servizi più efficaci; è
integrato con le politiche assistenziali locali che offrono servizi
alle persone in stato di bisogno (vecchiaia, malattia, handicap, esclusione
sociale); è integrato con le politiche attive del mercato del
lavoro, che a loro volta possono essere realizzate solo attraverso
strutture decentrate e flessibili, con la collaborazione degli enti locali.
In prospettiva, il sistema assistenziale potrebbe essere arricchito di
un altro nuovo istituto: il Fondo per i non autosufficienti, sul
modello della Pflegeversicherung tedesca, con la funzione di assicurare
a tutti i cittadini che vi partecipano prestazioni monetarie e cure mirate
all'effettivo stato di bisogno nel momento in cui si crei una situazione
di non autosufficienza. La copertura assicurativa dovrebbe essere estesa
a tutta la popolazione, con modalità di finanziamento che garantiscano
l'equilibrio della gestione.
L'introduzione dei nuovi istituti comporterebbe l'abolizione degli assegni
familiari, dell'assegno per il nucleo familiare, della pensione sociale
e dell'assegno sociale introdotto dalla riforma del 1995. Al finanziamento
di tali programmi andrebbero gradualmente destinate le risorse che si renderanno
disponibili in seguito all'interruzione dei residui istituti di redistribuzione
del reddito (integrazioni al minimo, pensioni di guerra, indennità
di accompagnamento e in genere pensioni e indennità per invalidità).
I nuovi istituti di cui si propone l'introduzione dovranno convivere per
lungo tempo con quelli preesistenti. Questi dovranno tuttavia essere riformati,
prevedendo più razionali criteri di determinazione dei limiti di
reddito; accelerando l'estinzione delle integrazioni al minimo in connessione
con le proposte qui avanzate di completamento della riforma pensionistica;
prevedendo modificazioni dei criteri di riconoscimento delle invalidità;
riformando l'istituto dell'indennità di accompagnamento.
Dal punto di vista finanziario la spesa per l'assistenza potrebbe mantenere
nella fase iniziale il proprio peso sul Pil, pari al 3,5%, per elevarsi
gradualmente al 4,2% nel 2001, a condizione che si realizzino apporti derivanti
da risparmi di altri comparti della spesa sociale. Quanto alla composizione
della spesa, la riforma determinerà un ingente spostamento di risorse
da istituti che si limitano ad erogare trasferimenti monetari a istituti
che mirano al soddisfacimento dei bisogni offrendo servizi (che passerebbero,
dal 7-10% attuale, a oltre un terzo della spesa complessiva). L'efficacia
della riforma dipenderà tuttavia in modo cruciale dalla determinazione
con cui, nella fase di articolazione delle proposte, si affronteranno le
inerzie derivanti da malintese interpretazioni dei diritti acquisiti e
dalle lentezze burocratiche.
LA POLITICA SOCIALE DELLA CASA
Il settore della prima abitazione ha sofferto in Italia numerosi vincoli
i cui risultati sono stati ben diversi dalle intenzioni. La protezione
sociale assicurata tramite questo strumento alla fascia debole degli inquilini
si è dimostrata poco efficace e del tutto inefficiente, provocando
una carenza di investimenti edilizi finalizzati alla locazione e unasfissia
del mercato delle locazioni degli alloggi esistenti, con alti livelli di
sfitto e diffusione di contratti illegali. Ne è risultato un significativo
e a volte drammatico problema della casa per ampi strati di popolazione,
i quali, dato lo stadio di sviluppo raggiunto dal paese, avrebbe trovato
invece ragionevoli soluzioni in un mercato libero e ben funzionante.
Il sistema di vincoli ha inevitabilmente generato forti segmentazioni di
mercato e ridotto la mobilità spaziale delle famiglie; esso ha,
inoltre, generato profonde discriminazioni tra famiglie di analoga condizione
sociale.
Il problema della casa oggi in Italia ha diversi profili che richiedono
un insieme coordinato di interventi di tipo fiscale, regolamentare, creditizio
e urbanistico. Ma si può dire che sotto il profilo della politica
sociale conviene certamente liberarsi del vecchio equivoco che postulava
un approccio dirigistico allintero settore quale garanzia di protezione
della fascia debole e che conviene invece darsi due obiettivi strategici;
da un lato, puntare ad un mercato delle locazioni e ad un mercato delle
compravendite sempre più liberi e funzionanti, per rispondere alle
esigenze della grande maggioranza delle famiglie; dallaltro, cercare di
individuare un insieme di misure selettive, allinsegna dellefficacia
e dellefficienza, per la quota di popolazione che non può trovare
risposta adeguata nel libero mercato.
Concretamente la politica sociale della casa deve puntare ad un triplice
risultato:
- aumentare la quantità di abitazioni disponibili per la fascia
debole;
- gestire con livelli di efficienza ed equità ben superiore al passato
il parco alloggi; - attuare una calibrata politica transitoria di uscita
dal regime di equo canone nel mercato delle locazioni, quando linquilino
sia meritevole di particolare tutela sociale, utilizzando allo scopo anche
qualche moderato sgravio fiscale.
IL SISTEMA SANITARIO
Negli ultimi anni sono stati intrapresi nel nostro Paese numerosi sforzi
volti a contenere la spesa sanitaria. E un fatto che la comparazione della
spesa media pro-capite nei Paesi Europei pone ora lItalia tra quelli a
più basso livello di spesa. Ad oggi si pone il duplice obiettivo
di mantenere il controllo sulla spesa sanitaria, da un lato, e di riqualificare
lassistenza, dallaltro. Ciò richiede di ridisegnare, allinterno
di un quadro organico che comprenda tutti gli agenti interessati, un sistema
di incentivi adeguati. E cioé necessario che la sanità italiana
passi da un sistema basato prevalentemente su meccanismi di controllo esterni
ad un sistema che faccia prevalere la responsabilizzazione di ciascuno
in merito a qualità e costo dei servizi erogati, facendo leva su
un collegamento più efficiente tra obiettivi individuali e risorse
a disposizione.
Nellottobre del 1992 il Parlamento indicava le linee guida per il riordino
delle SSN da cui trassero origine i decreti legislativi di riforma. A seguito
di tali decreti il Ministero della Sanità è chiamato a svolgere
compiti di programmazione sanitaria nazionale, a determinare i livelli
uniformi di assistenza sanitaria e le relative quote capitarie di finanziamento.
I decreti prevedono inoltre unaccentuata decentralizzazione del sistema,
attribuendo alla potestà delle Regioni la definizione delle attività
ospedaliere. Le principali innovazioni introdotte dai decreti, per quanto
attiene alla A-USL prevedevano una trasformazione in aziende di servizi
sanitari ed una maggiore responsabilità del direttore generale-manager.
Per gli ospedali è stata introdotta la trasformazione in azienda
dei principali presidi e modalità di remunerazione delle prestazioni
sulla base di tariffe fissate dalle Regioni, secondo i criteri stabiliti
dal legislatore nazionale. Per il personale ospedaliero sono stati introdotti
contratti di tipo privato, una maggiore mobilità e verifiche sullattività
di primari. Per quanto concerne i rapporti con i privati è stata
prevista una revoca graduale delle precedenti convenzioni e la creazione
di un elenco di istituzioni accreditate dal SSN. in possesso dei requisiti
di legge e che accettino il sistema della remunerazione a prestazione.
Il decreto 517 ha corretto limpostazione iniziale della riforma prevedendo
lincentivazione dei fondi sanitari, anche aziendali e di categoria autogestiti
o affidati in gestione a imprese assicurative o società di mutuo
soccorso, con funzione soltanto integrativa rispetto al SSN. Infine, la
riforma impone alle Regioni il ripiano dei propri disavanzi, anche attraverso
lintroduzione di nuovi ticket locali, la graduazione delle esenzioni e
laumento dei contributi sanitari e/o dei tributi regionali. Ad alcuni
anni dallapprovazione della riforma, sono rilevabili alcuni problemi di
fondo connessi ai seguenti nodi principali:
- i processi di assegnazione dei budget dal centro alle Regioni e da queste
alle A-USL non sono stati ratificati in modo preciso e portano a fenomeni
di contrattazione spesso non correlati alle esigenze di finanziamento dei
livelli di assistenza;
- il ripetersi di deficit strutturali a livello sia regionale sia di
A-USL evidenzia una difficoltà ad individuare forme efficaci di
responsabilizzazione e di penalizzazione dei soggetti che erogano la spesa;
- con riferimento al punto precedente, i soggetti erogatori prestano uninsufficiente
attenzione allintroduzione di adeguati incentivi mirati al contenimento
della spesa a livello dei singoli operatori;
- viene destinata una quota eccessiva di spesa ai trattamenti ospedalieri
a scapito delle altre funzioni istituzionali del SSN;
- si verifica una grave difficoltà a definire le modalità
di competizione tra soggetti privati e pubblici e, per quanto riguarda
questi ultimi, la separazione tra funzioni di programmazione e di erogazione
dei servizi.
A fronte dei problemi di cui sopra, la riforma che qui si propone tocca
in maniera equilibrata sia la componente del prelievo sia quella delle
modalità di erogazione della spesa.
Per quanto attiene al primo aspetto, in seguito allabolizione dei contributi
sanitari e allintroduzione dellIREP, per tener conto del diverso trattamento
dei redditi da pensione nei due regimi si auspica una ridefinizione delle
detrazioni IRPEF su tali redditi.
Sempre dal lato delle entrate, si propone di accelerare lattuazione della
normativa vigente relativamente allautofinanziamento delle Regioni. In
particolare, si prevede che questultime, per ampliare le entrate proprie,
possano introdurre compartecipazioni sul ricovero in regime ordinario e
di day-hospital, allinterno di importi minimi e massimi fissati dal Ministero
della Sanità. Le somme derivanti dalla partecipazione alla spesa
per queste prestazioni non devono concorrere al finanziamento della quota
capitaria. Inoltre, le Regioni potranno introdurre compartecipazioni sulle
prestazioni aggiuntive erogate dalla medicina generale (visite domiciliari
e assistenza domiciliare programmata) con lesclusione di quelle previste
allinterno di programmi regionali speciali.
Per quanto attiene alle modalità di erogazione della spesa, si propone
in primo luogo di rivedere il meccanismo di riparto tra il centro e le
Regioni, ratificando le modalità di distribuzione del FSN ed ampliando
il potere del Ministero della Sanità e delle Regioni nellattribuzione
dei finanziamenti ad organismi ed attività di interesse nazionale.
In questo ambito, si propone di rafforzare gli strumenti di penalizzazione
per le Regioni che presentano disavanzi e di ridurre le quote di interessi
sui mutui accesi dalle Regioni.
Per quanto attiene alle competenze del Ministero della Sanità, si
propone un riassetto delle organizzazioni centrali finalizzato a riorganizzare
le strutture preposte alla funzione sanitaria, potenziando i compiti di
programmazione, coordinamento e controllo e finalizzando le risorse dellIstituto
Superiore di Sanità a compiti di sanità pubblica.
Per quanto concerne le competenze delle Regioni, si evidenzia la necessità
che queste ultime adottino tariffari DRGS articolati in base alla complessità
delle strutture produttrici e che impongano alle A-USL la definizione di
budget preventivi per la spesa ospedaliera per evitare sfondamenti su altre
prestazioni. Si propone inoltre che venga effettivamente imposto ai singoli
presidi il vincolo del bilancio in pareggio e che eventuali residui attivi
possano essere utilizzati allinterno delle divisioni che li hanno realizzati
per finalità di potenziamento delle strutture. Per favorire una
maggiore scelta dei pazienti e più stringenti meccanismi di contenimento
della spesa, si propone inoltre di accentuare il processo avviato di responsabilizzazione
del medico di medicina generale, consentendo nuove modalità organizzative
della medicina di gruppo e prevedendo penalizzazioni per lo sfondamento
dei tetti di spesa programmati.
Come si è visto, il legislatore nel 1992 aveva predisposto lintroduzione
di alcuni strumenti che ancora attendono di essere regolamentati. A questo
proposito, si propone di procedere allintroduzione di forme di assicurazione
sanitaria integrativa con contestuale ridefinizione linsieme delle prestazioni
garantite dal SSN al fine di definirne con chiarezza gli ambiti operativi.
Esistono infine alcuni spazi di intervento su aree non esplicitamente previste
dalla riforma del 1992 e che tuttavia appaiono di grande rilevanza per
migliorare la qualità dei servizi complessivamente resi dal SSN.
Sotto il profilo degli interventi mirati ad introdurre una maggiore capacità
di scelta degli utenti e un maggiore grado di competizione tra i produttori,
si propongono i seguenti punti. In primo luogo, ridefinire le regole di
accesso al mercato della distribuzione dei farmaci, eliminando restrizioni
non giustificabili in termini di contenimento della spesa. In secondo luogo,
si ravvede lopportunità di consentire, in via sperimentale, la
gestione di alcuni grandi ospedali ad organizzazioni non lucrative di utilità
sociale. Infine, per quanto attiene i contratti collettivi nazionali dei
medici ospedalieri, si propone una definizione generalizzata di rapporti
di lavoro a termine e labbandono del metodo di individuazione dei fabbisogni
sulla base di piante organiche.
IL SISTEMA PENSIONISTICO
Dopo anni di riforme abortite, è difficile non vedere i passi
avanti che la riforma previdenziale del 1995 ha permesso sotto il profilo
dell'immunizzazione del sistema previdenziale rispetto agli shock demografici,
rispetto alle scorrerie della politica, rispetto alle più palesi
iniquità. Quest'ultimo punto è, naturalmente, centrale. Sorprende,
anzi, la scarsa consapevolezza che i ripetuti fallimenti delle passate
proposte di riforma fossero dovuti al fatto che le proposte stesse non
affrontavano mai il tema della uniformità dei trattamenti pensionistici.
Solo dopo aver posto tutti gli assicurati su un piede di parità
è possibile (e doveroso) chiedere agli stessi un sacrificio più
o meno rilevante.
Pur all'interno di un sistema che rimane a ripartizione, l'adozione del
metodo contributivo ha rappresentato, poi, una svolta in quanto ha restituito
al beneficio pensionistico il carattere di controprestazione rispetto al
versamento contributivo.
Della riforma sono condivisibili, dunque, i principi ispiratori. La riforma
non è priva, peraltro, di punti deboli derivanti, in larga misura,
da una applicazione a volte timida dei principi di fondo della riforma
stessa. Risalta, in particolare, la lenta fase di transizione con la quale
si sono addebitati, in larga misura, alle generazioni più giovani
i costi del cambio di regime. Ma proprio perchè della riforma sono
interamente condivisibili gli elementi di fondo, è opportuno por
mano, con le modalità e nei tempi anche brevi previsti dalla riforma
stessa, a determinate modifiche del sistema riformato per consolidarlo,
da un lato, per limitare gli elementi residui di iniquità, dall'altro,
e per associargli un sistema di previdenza complementare inteso a permettere
una diversificazione del "portafoglio pensionistico" dei lavoratori
e quindi un progressivo riequilibrio fra previdenza obbligatoria e previdenza
complementare.
La Commissione suggerisce, quindi, di operare nelle seguenti direzioni,
anche alla luce delle proiezioni citate in precedenza.
(a)Attuazione della riforma.
(I) Applicazione rigorosa dei principi e della lettera della riforma,
per quanto riguarda l'esercizio delle deleghe (in particolare, per quanto
riguarda l'armonizzazione dei regimi previdenziali) e l'emanazione dei
rilevanti decreti ministeriali.
(II) Estensione del processo di armonizzazione al fine di porre termine
ai benefici ed alle eccezioni ancora presenti in materia di età
pensionabile, anzianità contributiva minima, retribuzione pensionabile,
valutazione dei periodi di lavoro, rendimento annuo, massimale pensionabile,
disciplina del cumulo, riordino del sistema delle prestazioni di inabilità
e di invalidità.
E' presumibile che, sotto il profilo finanziario, effetti non irrilevanti
(ma non decisivi) possano derivare da una rigorosa applicazione delle indicazioni
precedenti.
(b)Separazione fra previdenza e assistenza.
Individuazione di un corretto trattamento contabile delle partite di
natura assistenziale gestite a carico dell'Inps, anche attraverso la estensione
prospettica delle disposizioni di cui al disegno di legge n. 1452 (Disposizioni
in materia di anticipazioni di tesoreria all'Inps", allegato) e relative,
per il momento, alle sole partite pregresse.
La definizione, nei termini proposti, della questione non influirebbe sui
livelli di spesa corrente, rilevando unicamente sotto il profilo giuridico-contabile.
Essa impedirebbe, però, di confondere (come spesso si è fatto
anche in tempi recenti) il saldo complessivo Inps con le tendenze della
spesa pensionistica.
(c)Previdenza obbligatoria a regime.
(I) Unificazione (e non già semplice armonizzazione) dei regimi
pensionistici oppure, in alternativa, autonomia gestionale e finanziaria
degli enti previdenziali consentita solo a condizione che vengano ridefinite
le regole di autosufficienza finanziaria di tali regimi sulla base di bilanci
tecnici previsionali di lungo periodo. In base a quest'ultimi sarebbe necessario
prevedere, per legge, gli interventi correttivi necessari sia relativamente
all'adeguamento della contribuzione che del livello delle prestazioni.
Ove emergesse con evidenza la loro insostenibilità si dovrebbe prevedere
la loro confluenza nell'Assicurazione generale obbligatoria riconoscendo
agli iscritti i soli diritti pensionistici sulla base delle regole generali
e non di quelle specifiche previste dai singoli fondi.
(II) Applicazione senza eccezioni del principio contributivo con graduale
allineamento delle aliquote di finanziamento alle aliquote di computo.
(III) Tempestiva ed automatica revisione dei coefficienti di trasformazione.
(IV) Allineamento del limite inferiore o del livello di riferimento dell'età
pensionabile ai livelli europei in vista di una riduzione a regime delle
aliquote di finanziamento.
Gli effetti finanziari derivanti dalle misure citate potrebbero consolidare
strutturalmente il sistema pensionistico a regime. Nel breve periodo gli
effetti finanziari potrebbero derivare dall'intervento di cui al punto
(II) con intensità inversamente proporzionale alla gradualità
dell'intervento.
(d)Transizione.
(I) Accelerazione della transizione al nuovo regime attraverso la eliminazione
di alcune difformità di trattamento attualmente presenti.
(II) Revisione dei criteri di valutazione dei diritti pensionistici nei
casi di carriere lavorative precoci o di lavori usuranti anche al fine
di permettere un equo trattamento in previsione di una modifica del metodo
di calcolo o dei requisiti d'accesso al pensionamento vigenti.
(III) Individuazione di un sistema di incentivi inteso ad accelerare l'entrata
in vigore della riforma (anche attraverso il collegamento della opzione
a favore del regime contributivo con il processo di privatizzazione delle
aziende o del patrimonio pubblico).
Per quanto riguarda gli effetti finanziari, sono prevedibili risparmi che,
pur se trascurabili nel breve periodo, assumerebbero consistenza crescente
nel medio termine in corrispondenza del periodo di maggiore impatto degli
effetti della transizione demografica.
(d)Previdenza complementare.
Decisa accelerazione nello sviluppo della previdenza complementare
ed estensione della stessa al settore pubblico.
Le implicazioni macroeconomiche delle riforme nel prossimo triennio
Le raccomandazioni contenute nelle pagine precedenti ridisegnano il
sistema di sicurezza sociale italiano per metterlo nelle condizioni di
affrontare limpatto delle trasformazioni demografiche e occupazionali,
dei mutamenti nei rapporti familiari e sociali, della liberalizzazione
degli scambi internazionali e della diffusione di nuovi modi di produrre.
Esse tengono conto, inoltre, che la costruzione dei nostri istituti di
previdenza, sanità e assistenza ha risentito degli squilibri (territoriali,
settoriali, categoriali) tipici dell'economia e della società italiana
in questo secondo dopoguerra, entrando nella nuova fase di "austerità"
di tali istituti con uno slancio ancora fortemente espansivo e quasi interamente
sprovvisto di incentivi interni all'auto-regolazione finanziaria. Nell'ultimo
ventennio la spesa sociale italiana ha finito così per originare
flussi allocativi e distributivi difficilmente riconducibili a qualche
progetto coerente di modernizzazione, contribuendo peraltro al progressivo
peggioramento dei conti pubblici e all'accumulo del debito.
I tempi e le modalità applicative della ristrutturazione della spesa
sociale, che la Commissione propone, dovranno misurarsi con questa eredità.
L'obiettivo di risanamento dei conti pubblici, nel breve periodo, non può
fare a meno del contributo che può provenire dal contenimento della
crescita della spesa sociale.
In altre parole, al compito di raffreddare la dinamica strutturale di lungo
periodo della spesa sanitaria e pensionistica e di favorire la competitività
con minori oneri contributivi e rendendo compatibile una maggiore flessibilità
sul mercato del lavoro con la coesione sociale, si somma quello di contribuire
al completamento dell'opera di risanamento della finanza pubblica avviata
nel 1993.
Il riflesso di questo compito aggiuntivo è il vincolo posto dall'elevato
peso degli interessi, che ci differenzia sostanzialmente dagli altri paesi
europei. Questo vincolo finanziario, ereditato dal passato, ci obbliga,
nel corso del 1997, a destinare poco meno del 10% del Pil a interessi sul
debito accumulato, mediamente il triplo di quanto spendono gli altri
principali paesi. Questo vincolo può allentarsi nei prossimi
anni solamente aumentando ora l'avanzo primario e raggiungendo
tempestivamente e stabilmente l'obiettivo di convergenza europea.
Da ciò conseguono gli obiettivi che il governo si è impegnato
a perseguire nei prossimi anni in termini di bilancio delle amministrazioni
pubbliche: riduzione dell'indebitamento netto a un livello di sostenibilità
entro i limiti del Patto di Stabilità.
Solamente la realizzazione di questo obiettivo consentirà un profilo
in riduzione dell'onere degli interessi, conseguente a una riduzione dei
differenziali tra tassi di interesse italiani e tassi europei; in altre
parole, mancare gli obiettivi non allarga lo spazio di bilancio, lo restringe.
La Commissione, nel delineare le implicazioni macroeconomiche della convergenza
e del Patto di Stabilità, ha assunto che tra gli obiettivi del governo
sia previsto che il cosiddetto dividendo della convergenza venga distribuito,
almeno in parte, sotto forma di un minor rapporto tra entrate totali e
Pil.
Tale obiettivo potrebbe tradursi nel ritorno del rapporto entrate totali
e Pil, nel corso degli anni 1999 e 2000, ai livelli medi 1995-'96.
Nella tabella precedente la Commissione ha inteso riassumere le implicazioni
dei vincoli menzionati in relazione al contenimento del carico fiscale
sul percorso tendenziale delle voci più sintetiche del Conto delle
Amministrazioni Pubbliche. Questa valutazione è stata effettuata
sulla base della legislazione vigente (LF è97, inclusa e considerata
totalmente efficace nei suoi effetti). Ritardi negli adempimenti previsti
dai provvedimenti di bilancio, ritardi nell'attuazione delle deleghe, scarsa
attenzione, in generale, alla realizzazione operativa della mole consistente
di norme ordinatorie contenute nel Collegato alla LF comporterebbero uno
scostamento più elevato dagli obiettivi.
Sarà compito del governo articolare ulteriormente i contributi alla
riduzione dellindebitamento netto primario (in realtà, allincremento
di avanzo primario), che dovranno venire dalle due componenti di spesa
primaria corrente, quella per la protezione sociale e laltra spesa primaria
corrente, nellipotesi che non si intenda coinvolgere nelle azioni di risparmio
né la spesa per le politiche attive sul mercato del lavoro, né
quella per investimenti pubblici.
Le conclusioni cui la Commissione è giunta suggeriscono la possibilità
che la riforma della spesa sociale, qui delineata, possa contribuire, in
misura limitata e nel breve periodo, alla riduzione tendenziale della quota
di spesa primaria corrente sul Pil. La gradualità nella applicazione
del disegno di riforma che la Commissione propone, si articolerebbe in
un avvio dei nuovi istituti di assistenza al reddito e autosufficienza,
da un lato, e di assicurazione sul mercato del lavoro, dallaltro, man
mano che diventano palesi i risparmi negli altri comparti di spesa sociale.
La realizzazione dellobiettivo di convergenza europea e di partecipazione
allunione monetaria consentirebbe un ritorno delle quote di spesa per
la protezione sociale ai livelli del 1995-96, ma lungo un percorso di
ricomposizione della spesa stessa più simile a quella europea e,
comunque, meno fragile sul piano finanziario.
Conclusione
Nel 1998 lo stato sociale italiano compirà il suo primo centenario
di vita. Nel corso del prossimo anno l'Italia verrà chiamata anche
ad un altro storico appuntamento: quello con la moneta europea. La coincidenza
dei tempi è fortuita. Ma fornisce l'occasione e lo stimolo forse
più appropriati per avviare oggi un grande dibattito sulla riforma
in senso europeo del nostro sistema di spesa sociale: una riforma volta
ad accrescere la sua capacità di risposta ai bisogni sociali in
forme solidaristiche e a costi compatibili con la piena partecipazione
dell'Italia all'Unione economica e monetaria.
Riformare oggi lo stato sociale italiano - nell'imminenza di un simbolico
anniversario secolare - vuol dire dunque essenzialmente ri-equilibrarlo:
nei suoi saldi finanziari così come nelle sue distorsioni qualitative.
L'allineamento agli standard europei impone un'incisiva ristrutturazione
interna della nostra spesa sociale. Rispondere efficacemente a questi impegni,
come abbiamo visto, significa affrontare gli ostacoli oggettivi che si
incontrano nell'incrementare la produttività dei servizi sociali,
nel rinnovare i sistemi di incentivo, nell'attivare nuovi programmi, disattivando
invece quelli che sono diventati obsoleti. Il cambiamento istituzionale
solleva poi alcuni delicatissimi interrogativi: quale gerarchia di obiettivi
si deve perseguire all'interno della protezione sociale e fra questo settore
e altri settori? Verso quale tipi di bisogni e in base a quali criteri
è opportuno concentrare gli sforzi della collettività, in
modo da assicurare insieme coesione sociale e sviluppo economico? In che
misura sono possibili miglioramenti di efficienza attraverso il collocamento
di alcuni servizi sul mercato oppure attraverso nuovi mix fra offerta pubblica,
privata e volontaria?
La Commissione sottolinea come il disegno di riforma dello stato sociale,
delineato nelle pagine precedenti, sia in grado di garantire nellimmediato
risparmi di spesa di dimensione non trascurabili; risparmi che diverrebbero
crescenti nel tempo, permettendo il finanziamento dei nuovi istituti nei
comparti dellassistenza e delle politiche del lavoro. Per questi nuovi
istituti è pensabile una messa a regime nei primi anni del prossimo
secolo. Con essa si realizzerebbe non solo una ricomposizione della spesa
sociale ma anche una radicale trasformazione del patto sociale fra gli
italiani. Nel breve periodo anche la spesa sociale sarebbe, in via limitata
e temporanea, chiamata a contribuire al processo di risanamento, la cui
piena riuscita è essa stessa condizione indispensabile per la realizzazione
dellintero disegno di riforma dello stato sociale.
Il ritardato ingresso nellUnione monetaria europea ed il conseguente profilo
non declinante della spesa per interessi non solo impedirebbero un disegno
riformatore ma renderebbero estremamente difficile il mantenimento stesso
dei livelli attuali di protezione, per quanto inefficienti e spesso iniqui.
Nel medio periodo, la spesa sociale tornerebbe ai suoi livelli attuali
in un quadro profondamente rinnovato. La Commissione rileva, infine, come
il percorso appena delineato possa rivelarsi tanto più facile quanto
più tempestivi saranno i primi interventi e quanto più incisive
saranno le misure volte a recuperare livelli europei di efficienza anche
in campi diversi dalla spesa sociale ed in particolare in quello dei servizi
di pubblica utilità. Nella valutazione delle proposte, che la
Commissione ha formulato, è necessario non trascurare che esse non
sono separabili le une dalle altre e devono essere precedute da un disegno
di sperimentazione e costituzione delle precondizioni amministrative che
le rendano praticabili.
Da un lato, infatti, l'ampliamento delle forme di assicurazione dell'occupazione
e del reddito non solo va finanziato con la minore crescita della spesa
pensionistica, ma esso costituisce un tentativo di valorizzare l'autonomia
e responsabilità dei giovani, dispersa ora in quella più
ampia della famiglia.
Dall'altro, non va taciuto il rischio che si aprano le porte a flussi incontrollati
di spesa aggiuntiva, se non sono predisposte prima alcune riforme della
pubblica amministrazione, in generale, sviluppando maggiormente le responsabilità
individuali e di unità di budget, per quello che riguarda gli amministratori,
e, in particolare, non siano affrontati i problemi di accertamento dei
mezzi a disposizione degli individui e non siano istituiti i nuovi servizi
per l'impiego destinati a gestire i programmi di garanzia del reddito per
i disoccupati.
Le difficoltà operative di applicazione di questi aspetti della
riforma proposta, potrebbero indurre a considerare la opzione di effettuare
qualche semplice ritocco alle pensioni senza intervenire sugli altri comparti
di spesa, come uno scenario più facilmente percorribile sotto il
profilo politico e sociale e a minore rischi per il bilancio pubblico.
A parere della Commissione si tratterebbe di una scelta inadeguata rispetto
alle ricadute politico-sociali della evoluzione del sistema economico,
che oggi possiamo prospettarci, e rispetto allobbiettivo di rifondare
le basi della cittadinanza sociale nel nostro Paese per conseguire insieme
più sviluppo e più solidarietà.
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