La presenza degli immigrati nella scuola pubblica

Intervista a Marina Catricalà
Direttore del Centro Linguistico dell'Università per stranieri di Siena

di Nunzia Latini

 

Anche il Presidente della Repubblica ormai ha parlato di questo. E' una realtà da non sottovalutare: lo straniero sta entrando di diritto nel tessuto sociale nazionale. Nel frattempo ci sono i sondaggi dell'Unione europea, commissionati all'Osservatorio su razzismo e la xenofobia in Europa. Gli europei non razzisti sono solo il 34% contro il 66% di razzisti e il 41 % di loro dichiara che nel proprio paese ci sono troppi stranieri.

I numeri parlano chiaro: 83.000 presenze di alunni immigrati, 20.000 in più dell'anno scorso e delineano nuove urgenze nell'ambito dell'istruzione pubblica, tanto da far preannunciare l'istituzione di una "task-force" che possa rendersi disponibile sul lavoro linguistico e culturale dei nuovi iscritti stranieri nella scuola elementare e media. Un lavoro che ha bisogno di molto tempo e dedizione, che deve essere svolto da persone competenti che abbiano esperienza, perché sappiano cogliere elementi essenziali allo sviluppo educativo e linguistico dell'alunno che non è lo stesso dei ragazzi italiani.

Le differenze, le distanze e anche le sofferenze per la diffidenza, così fortemente radicate in ognuno, ci sono! e devono essere tenute ben presenti. Ma anche l'integrazione non è affatto facile e il proposito più nobile può essere inadeguato, rimanere sterile di fronte poi ad una parola spontanea profondamente razzista in cui riemerge tutto il divario culturale. Chi è vicino ad una metropoli come Roma, può essere abituato ad incontrare tante razze diverse, ma averli tra i banchi di scuola pone tutta una serie di reazioni a catena e problematiche che vanno risolte, e questo in special modo, quando ci allontaniamo ed entriamo nei piccoli quartieri di provincia. Quanti genitori sono educati ad accogliere o quanto meno a considerare tranquillamente le differenze? Quante mamme sono pronte a rispondere alle curiose domande dei piccoli, o non hanno battuto ciglio al fatto che c'è un compagno di banco di colore? Ma soprattutto quanti maestri o professori di ruolo nella scuola pubblica sanno rispondere ad una adeguata programmazione, stilata proprio per l'italiano come lingua seconda a bambini immigrati, che arrivano da diversi paesi e con matrici linguistiche diverse e quindi con pensieri diversi e abitudini diverse? Ma soprattutto con tutta la buona volontà, come e quando possono svolgere una attività così diversa, dato il tempo, sempre così ridotto anche per una classe di studenti italiani tra programmazione, rientri a scuola e aggiornamenti. Lo abbiamo chiesto alla professoressa Marina Catricalà, che da tempo si occupa di queste tematiche, Direttore del Centro Linguistico dell'Università per stranieri di Siena, tiene un corso di scrittura presso il laboratorio di Scienze della Comunicazione dell'università La Sapienza di Roma:

"Un docente di italiano oggi non può, ma DEVE imparare anche ad insegnare l'italiano come lingua straniera; e ciò per il semplice motivo che di fronte alla presenza degli oltre 83.000 studenti immigrati iscritti nelle nostre scuole nessuno, neppure il docente di filosofia o di matematica, può più permettersi ( a mio avviso) di ignorare le principale tematiche connesse al bilinguismo e alla interferenza. Sono, infatti, i processi cognitivi della persona ad essere coinvolti nell'apprendimento della lingua, della scrittura e della lettura, quanto nella riflessione metalinguistica. Se è vero (ed io ne sono convinta) che la lingua è il nostro stesso pensiero, senza parole i nostri studenti immigrati non potranno pensare, scegliere, operare come cittadini a pieno titolo. Ciò è già successo in passato nel nostro paese ad intere generazioni di dialettofoni condannati all'afasia e all'incomunicabilità da una scuola miope ed elitaria. Il prezzo pagato è stato molto alto: anche quanto di buono c'era nel nostro sistema scolastico e nei suoi valori è stato demolito o demonizzato. Non possiamo permettere che riaccada.

Ma un maestro o un insegnante di Lettere nella scuola pubblica si trova ad una situazione complessa e credo che avrebbe bisogno di strumenti diversificati?

E' più difficile capire come il docente debba insegnare l'italiano agli stranieri e in classi di italofoni. Ci vogliono strumenti ad hoc, corsi di perfezionamento, figure come quella del mediatori che lo affianchi e la capacità di costruire percorsi contrastivi e d'analisi utili anche ai bimbi italiani.

E quale didattica per la valorizzazione delle differenti culture e per l'apprendimento della lingua italiana, se a monte c'è questo atteggiamento radicato di ognuno nel sentire lo straniero, per definizione lontano, diverso, sconosciuto, parole che sono quasi diventate sinonimi di diffidenza, ostilità o addirittura paura?

Non è facile. Il diverso, l'altro da noi, genera sempre paure e ansie, come dice Lei. Fondamentalmente, però, tali paure sono dovute al fatto che l'ignoto non è controllabile e, quindi, legittimamente, in base ad una sorta di istinto tendiamo ad evitarlo, facciamo finta di non vederlo, fino ad arrivare poi a temerlo. Oggi, però, noi abbiamo molti strumenti che le scienze umane, dalla antropologia alla etnolinguistica, dalla sociologia alla storia delle religioni, hanno messo a punto per analizzare, capire e conoscere. La valorizzazione della lingua del "diverso" , lo diceva già il glottologo Ascoli nel secolo scorso, passa per il confronto, per la riflessione di ciò che ci fa uscire dalla nostra autoreferenzialità di cultura egemone e genera energia mentale dall'attrito della ruota che cigola e non da quella che scivola. Per esempio studiando una lingua straniera o una lingua universale, come per esempio l'esperanto, insomma una lingua sconosciuta a tutti gli studenti, la diversità è facilmente valorizzabile: quanti più tratti distintivi e modalità comuni ci si riescono a rintracciare, tanto più i processi di acquisizione e di memorizzazione saranno attivi ed efficaci.

Ma non è solo un problema di come insegnare o di cosa far fare! Il contatto dovrebbe portare il superamento dei problemi razziali che sono comunque radicati e difficili da estirpare. Sarà difficile, ma si dovrà lavorare su noi stessi fino a togliere le generalizzazioni sulle razze e saper domandare come primo pensiero, senza difensive o allontanamenti: "E tu da dove vieni?

Certo il problema del razzismo è talmente complesso, che sarebbe quanto meno semplicistico ritenere che la didattica possa da sola risolverlo. Ci sono, oggi, in competizione o a completamento ( non voglio entrare nel merito dell'annosa querelle fra apocalittici/integrati) del sistema formativo tradizionale agenzie di comunicazione e di formazione molto potenti e di grande rilevanza per la crescita della persona. I mezzi di comunicazione di massa e le nuove tecnologie della rete impegnano una parte sempre più consistente del nostro tempo libero e i giovani spendono, per esempio, milioni solo in videogame.

E' anche vero, però, che gli studenti passano un terzo o anche la metà delle ore della loro vita attiva e di socializzazione nella scuola. Quello che è certo è che la scuola non può mostrarsi indifferente o addirittura razzista. Un atteggiamento discriminante è facilmente riproducibile e costa meno fatica.

Lei ha ragione quando dice che ci vuole tempo: i processi di integrazione non possono essere immediati e gratuiti. Bisogna sapere quale risultato si vuole ottenere e lavorare anche sapendo che forse quando lo avremo raggiunto noi non ci saremo.

Avremo gettato le fondamenta, avremo dato lo start giusto a un processo di arricchimento della nostra società e non l'avremo condannata all'entropia autodistruttiva di ogni sistema chiuso.

Pluricultura, multicultura e intercultura. Momenti didattici propri e di lavoro diverso, troppo spesso assimilati in tutt'una.

Lei fa bene a chiedermi di precisare se la didattica multiculturale o pluriculturale è uguale a quella interculturale. Ha ragione, perché bisogna sapere per quale tipo di modello lavoriamo e questi sono diversi. Il modello pluriculturale è un modello semplicemente descrittivo. Quello interculturale ha un valore programmatico e prescrittivo. Facciamo alcuni esempi: ci sono vari tipi di multiculturalità, ascrivibili anche solo a un puro eruditismo. Ne è un caso tipico quella interessata al solo aspetto gastronomico. Che in una metropoli ci siano ristoranti d'ogni genere e origine, però, non vuol dire automaticamente che la società di quella città sia multiculturale e pluringuistica. Nella globalizzazione, questo può significare semplicemente che vi sono ragioni commerciali e non di integrazione e di scambio, quanto di gusto per l'esotico. Nel caso, invece, di interventi mirati a favorire l'interiorizzazione di immagini positive dell'immigrato, lì si ha un intervento interculturale. Pensi alla svolta che provocherà nei comportamenti delle persone il recente inserimento nel corpo dei vigili urbani di Milano di alcuni stranieri. Il fatto che indossino una uniforme e rappresentino un pubblico ufficiale porterà a cambiare completamente il nostro immaginario collettivo. Non ha forse pesato in tutti questi anni per noi romani vedere e sentire un giornalista del TG3 di colore? Non ci è servito a vincere molte di quelle prevenzioni di difesa e di paura di cui abbiamo parlato prima, molto di più di tanta letteratura sullo zio Tom, la cui realtà noi sentiamo tutto sommato molto lontana da noi?

Il nostro sistema sociale si sta dimostrando disponibile e aperto a queste problematiche attualissime?

Diverse iniziative, come il CHIP (Child Immigration Project), i provvedimenti contenuti nella Legge 400/88, la programmazione dell'educazione linguistica, la nascita di centri di accoglienza, orientamento, riflessione, la collaborazione della scuola con gli enti locali e le strutture del volontariato, il tutto (attenzione) in ottemperanza a quanto scritto nell'articolo 3 della nostra Costituzione, sì, secondo me ci stanno aiutando a mantenere un sistema sociale aperto e disponibile a dare cittadinanza e diritti a chi viene nel nostro paese per lavorare e integrarsi. Tralascio qui la spinosa questione dei clandestini e della delinquenza, ovviamente.

In questo senso la struttura di questa comunità nazionale, ora in fermento e in movimento, che accoglie anche se con difficoltà, delle identità profondamente diverse, sta cambiando?

Non posso non pormi una domanda, però a riguardo e cioè se l'interculturalismo per quanto attivo e compartecipato dagli immigrati stessi può portare oltre che alla tolleranza e al riconoscimento dei diritti storici e politici, alla nascita di una nuova identità etnica e nazionale. Su questo ho dei dubbi e molte perplessità. Non sono forse ancora italiani ( e la recente legge sul loro diritto di voto ne è una riprova) i nostri emigrati presenti in Svizzera, Argentina, Australia, ecc. ? Ci sono lacerazioni che non si possono rimarginare, se non dopo molto, ma molto tempo e, comunque, ne restano le cicatrici. Ma questa è un'altra storia.



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