Studenti stranieri nelle università italiane
Intervento di Angelo Bottone
Vicepresidente nazionale FUCI federazione Universitaria Cattolica Italiana
I soggetti promotori dell'iniziativa
Questa iniziativa è presentata da FUCI ed UDU, due organizzazioni con finalità e struttura diverse che associano studenti universitari e operano in e per l'università.
La F.U.C.I. (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) è una associazione giovanile cattolica con più di 100 anni di storia, che propone agli studenti universitari percorsi di formazione culturale, politica e religiosa: é costituita da un centinaio di gruppi sparsi in tutte le regioni italiane, che propongono periodicamente iniziative di animazione dell'ambiente universitario e cittadino.
Si occupa principalmente di:
L’UDU (Unione degli Universitari) si occupa di tutelare gli studenti universitari nei loro diritti e nei loro bisogni, attraverso la sua rete di rappresentanti degli studenti, attraverso le sue associazioni studentesche confederate e attraverso i servizi erogati nelle proprie sedi. L’UdU, fondata nel 1994, è presente in 20 città italiane e si organizza sul modello dei sindacati studenteschi e delle student’s unions che esistono negli altri paesi europei.
Principali campagne nazionali dell’Unione sono state, dalla fondazione ad oggi, quelle per il miglioramento dei servizi per il Diritto allo studio, e quelle sulla didattica, per la valutazione ed il controllo delle attività di docenza da parte degli studenti.
Ci è sembrato doveroso presentarci in una sede nella quale siamo per la prima volta ufficialmente presenti; a motivo di ciò desideriamo esprimere il nostro ringraziamento al CNEL per aver fiduciosamente accolto ed incoraggiato la nostra proposta, mettendo a disposizione mezzi e strumenti per la realizzazione.
Le motivazioni
Perché questo seminario? Con il progressivo accentuarsi dei fenomeni migratori dai paesi del sud del mondo e dell’est europeo verso i ricchi paesi occidentali, i problemi dell’integrazione sociale e culturale degli immigrati, divengono priorità urgenti per tutti i governi delle nazioni industrializzate. Tra i diversi profili di indagine e di studio del fenomeno dell'immigrazione se ne rileva uno, a nostro avviso di particolare interesse ma poco presente nel dibattito culturale e politico: gli spostamenti da un Paese ad un altro, o da un continente ad un altro, per ragioni di studio.
L’Università è potenzialmente uno dei maggiori strumenti di mobilità sociale a livello nazionale e, sempre più, a livello transnazionale. In tutto il mondo sono in continuo aumento gli studenti che completano all’estero i loro percorsi formativi. Bisogna però osservare che la mobilità studentesca assume diversi aspetti, legati alle condizioni socioeconomiche dei Paesi e delle famiglie di provenienza, alle motivazioni che spingono un giovane a decidere di studiare all’estero, alle capacità di accoglienza del sistema formativo e dello Paese di approdo. Abbiamo così un panorama assai diversificato: c’è chi sceglie liberamente e chi è costretto dalle condizioni sociopolitiche del Paese natio; chi può godere di una sicurezza economica e chi invece si trova in uno stato di precarietà; chi si muove all’interno di una area culturale condivisa e chi invece proviene da tradizioni distanti; chi è spinto dal desiderio di inserirsi nel Paese che l’accoglie e chi invece vorrebbe spendere i frutti di un’esperienza temporanea in patria.
Tale fenomeno impegna le istituzioni a elaborare e ricercare le opportune strategie di integrazione attraverso politiche di accesso alla formazione, diritto allo studio, orientamento allo studio e al lavoro, promozione di scambi culturali, con particolare attenzione agli studenti stranieri che si trovano in condizioni disagiate.
E’ a partire da queste riflessioni che nasce l'idea di aprire un dibattito sulla condizione degli studenti stranieri nell'università italiana; i temi dell'interculturalità, della cittadinanza, della cooperazione allo sviluppo per i paesi poveri, della formazione e del lavoro per chi è immigrato nel nostro paese, vanno posti al centro di un'ampia discussione a cui devono partecipare studenti, docenti, ricercatori, istituzioni e mondo dell'associazionismo. Infatti l'immigrazione per motivi di studio sembra percepita come un fenomeno di scarso rilievo, sia perché numericamente esiguo, sia per il fatto che non è mai stato oggetto di interventi pubblici specifici ed organici.
Consapevoli della complessità della tematica e del pericolo di interpretazioni superficiali, riteniamo innanzitutto necessario approfondire la portata delle problematiche attraverso un'attività di ricerca e di studio e quindi anche attraverso la realizzazione del seminario di oggi.
Nodi tematici dell’iniziativa
Attualmente studiano in Italia circa 20.000 studenti stranieri: questo dato è tra i più bassi a livello europeo e non solo. (1,2% degli studenti totali rispetto alla media OCSE del 4,8%, dati 1998) Negli anni ‘90 si è inoltre registrata, pur con oscillazioni più o meno evidenti, una flessione negativa nella presenza degli stranieri nelle università italiane, soprattutto a danno di asiatici, africani e americani, mentre aumentano gli europei.
Perché proprio nell’era della globalizzazione, quando si estendono le possibilità di acquisire informazioni e di spostarsi, l’Italia registra questo trend negativo?
Oggi lo studente straniero, come pure lo straniero che vive in Italia per motivi di lavoro, si trova in una situazione di costante incertezza. All’indomani della nuova legge in materia di immigrazione (Legge 40/98), che sancisce la parità tra studenti stranieri ed italiani quanto ad accesso all’università e diritto allo studio, si pone la questione di come questo principio andrà messo in atto. I problemi che uno studente straniero deve affrontare per poter studiare in Italia sono numerosi e tutti di difficile risoluzione: basti pensare alla programmazione annua dei visti di ingresso e dei permessi di soggiorno per motivi di studio, all’incertezza del rinnovo annuale di questi permessi, agli stringenti requisiti economici per l’ingresso nel nostro paese, alle questioni legate all’assistenza sanitaria e all’accesso degli stranieri al diritto allo studio (borse, alloggi, altri servizi).
A questi problemi si associano le questioni degli studenti–lavoratori stranieri, della condizione di profughi e rifugiati politici.
E’ quindi importante analizzare quali sono gli elementi di pregio ed i limiti nell’accoglienza che istituzioni, università, associazioni ed organizzazioni nazionali possono offrire, data la normativa vigente. La attuale legislazione per il diritto allo studio e più in generale le leggi sull’immigrazione del nostro paese possono costituire, soprattutto a causa della loro scarsa, imperfetta o parziale applicazione, più un elemento di discriminazione che di integrazione verso gli immigrati in generale.
Sugli studenti stranieri il peso di queste contraddizioni è ancora più accentuato, a causa delle peculiarità di questi soggetti ed alle inevase richieste che da tempo le organizzazioni che si occupano della questione sollevano.
La riforma universitaria dal prossimo anno accademico, promette di rivoluzionare l’intero sistema di formazione superiore. Con le lauree triennali ed i crediti formativi l’università italiana, storicamente ostile a qualsivoglia processo di riforma, si propone una sfida molto ambiziosa, nella quale, crediamo, anche il tema degli studenti stranieri dovrà trovare cittadinanza. Nelle prossime settimane si ridefiniranno con un Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, i requisiti per l’accesso al diritto allo studio universitario. Ci aspettiamo al suo interno delle misure pensate appositamente per gli studenti stranieri, che puntino a realizzare fattivamente quella parità di trattamento ratificata dalla Legge 40 ma che ad oggi è sancita solo sulla carta.
Un altro degli interrogativi che ci ha spinti alla promozione di questo seminario di studi è stato il rapporto tra le università italiane e gli studenti stranieri, intesi come soggetti portatori di culture e identità specifiche: in realtà l’impressione è indubbiamente quella di una sorta di indifferenza e di trascuratezza della questione, che non va letta tanto nei termini di una mancata risoluzione di un problema, quanto piuttosto come incapacità da parte nostra di saper cogliere e valorizzare una ricchezza.
Quanto l’università italiana si preoccupa di dotarsi degli strumenti e delle strutture, non solo di accoglienza, ma ancor prima di attrazione dello studente straniero? Quanto si è spesa per favorire un autentico dialogo di tradizioni, culture, appartenenze, potenzialmente favorito dalla presenza di studenti stranieri? A partire da queste domande, cerchiamo di svolgere alcune considerazioni.
Innanzitutto, nel momento in cui si assiste ad una vera e propria concorrenza tra paesi per assicurarsi la presenza dei migliori “cervelli globali”, non si può ritenere che la capacità di attrarre studiosi, professionisti e ricercatori sia determinata esclusivamente dal grado di apertura delle leggi sull’immigrazione; l’insuccesso del caso della Francia e della Germania, paragonato a quello di Stati Uniti e Regno Unito, dimostra che oltre ad “aprire le frontiere” è necessario predisporre una gamma di incentivi ed opportunità idonee a ricompensare capacità e competenze individuali di chi è disposto ad offrirle sul mercato internazionale.
Garantire un elevato grado di qualità del sistema formativo, sprovincializzare i sistemi della ricerca e delle professioni, stimolare la creazione di comunità di incontro e di scambio costituiscono modalità di azione ulteriori per rendere preferibile per uno studente straniero un paese rispetto ad un altro. In questo l’Italia, che vive una fase di insuccesso di ospitalità, avrebbe qualcosa da imparare.
Siamo convinti che proprio in questa intensa fase di riforma, nel ridisegnare compiti e strutture, diventa prioritario per l’università ricomprendersi all’interno di un nuovo orizzonte culturale. Essa dovrebbe costituire un ponte tra dimensione locale e globale: all’attenzione verso la storia e la cultura del territorio in cui è radicata deve accompagnarsi il desiderio di conoscere e coltivare il sapere originatosi in altre zone del pianeta, nella prospettiva di essere veicolo di comprensione tra culture e comunità differenti.
Alla luce di questo, che pare essere uno dei grandi obiettivi di sviluppo dell’università italiana, emerge con chiarezza la funzione strategica della presenza di studenti stranieri nelle aule degli atenei come una delle migliori occasioni per realizzare, laddove questa presenza vi sia, alcune novità: l’introduzione di corsi in lingua straniera, un approccio eminentemente interculturale alle discipline tradizionali di studio e una maggiore internazionalizzazione dei dipartimenti rappresentano strumenti per il rinnovamento della didattica e della ricerca universitarie, ma anche un forte elemento di attrazione per chi si sposta dal proprio paese per motivi di studio.
L’accoglienza dello studente straniero, infatti, non si misura solo attraverso la predisposizione di garanzie materiali di sostegno, di cui abbiamo già parlato e rilevato l’importanza, ma anche nella valorizzazione di un’identità di fronte alla quale non si rimane indifferenti o distratti, ma da cui ci si lascia interrogare e rinnovare.
In quest’ottica i risultati potranno essere valutati non soltanto in termini di prestigio delle università (quanti più studenti si attrae dall’estero tanto più elevata è la competitività di un sistema formativo nazionale) o in termini di ricchezza economica del paese (pensiamo agli scenari futuri in cui diventerà sempre più funzionale, visto il grave problema demografico, la presenza di professionisti stranieri formati in Italia), ma in termini di integrazione sociale e culturale, nel reciproco interesse dei paesi.
Nel nostro paese, ne sono una prova i numerosi ospiti ed operatori presenti al seminario di oggi, ci sono soggetti istituzionali e non che si interrogano quotidianamente sull’impatto virtuoso che può generarsi a partire da nuove, e spesso per noi inedite, politiche in favore dell’integrazione sociale e culturale degli studenti stranieri.
In diversi atenei, ed in molte città italiane sede di università, stanno nascendo attorno agli studenti stranieri interessanti esperienze di studio, di assistenza, di valorizzazione, aventi proprio lo scopo di evidenziare come in realtà gli studenti stranieri possano costituire una risorsa per il nostro paese, come per il paese da cui provengono. Sotto tale profilo, però, appaiono ancora sporadiche le esperienze che si muovono in questa direzione e troppo diffuso un atteggiamento di sospetto verso le culture non eurocentriche.
Se così abbiamo cercato di dimostrare quale e quanta sia la ricchezza che gli studenti stranieri offrono al nostro paese, ci rendiamo conto altresì del fatto che essi rappresentano un indubbio valore anche per i rispettivi paesi di provenienza, specie per i c.d. PVS, probabilmente interessati a recuperare una risorsa umana dotata del valore aggiunto di una formazione spesso possibile solo all’estero. I problemi che qui emergono sono di notevole complessità: come studenti, compagni dei colleghi stranieri, non ci sentiamo di affermare, magari contro la volontà degli stessi volta ad una piena stabilizzazione in Italia, la doverosità del loro impegno per la realtà di provenienza.
Crediamo però che, laddove lo spostamento sia “forzato” oppure realizzato con la speranza di poter successivamente contribuire allo sviluppo economico e sociale della propria terra, l’attesa dei nostri coetanei stranieri non possa essere disillusa per la mancanza di politiche adeguate, specie in materia di cooperazione allo sviluppo.
Ragioni di solidarietà e di responsabilità di governo delle relazioni tra paesi del Nord e del Sud del mondo impongono la predisposizione di norme e di sostegni a garanzia di un sistema globale più equilibrato.
E’ a partire da queste domande e osservazioni che vogliamo avviare il dibattito e la ricerca, augurando a tutti un proficuo lavoro per questo seminario.
“Lo straniero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato tra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati stranieri nel paese d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio” (Lev 19, 34).
Questo seminario di studio rappresenta per la FUCI un momento importante di un cammino che ha avuto come tappa fondamentale il Congresso di Padova dello scorso maggio, durante il quale ci siamo interrogati sulle sfide della società multiculturale.
Nelle tradizionali settimane teologiche di Camaldoli poi abbiamo voluto mettere a tema l’appartenenza e lo straniero nella Bibbia e nella letteratura.
Perché un interesse per queste tematiche?
Fondamentalmente per due motivi: perché siamo cristiani e perché siamo studenti.
Il cristiano è colui che si riconosce fedele ad un Dio straniero, seguace, come dice Michel De Certeau, di colui che si mostra nascosto.
Straniero è Cristo stesso, lui che viene al mondo in una mangiatoia, che da straniero fugge, come Abramo, lui, profugo in fasce in Egitto, come i profughi disperati che popolano la nostre rive. Come se fosse straniero viene frainteso dai suoi, come straniero viene inquisito, interrogato, osteggiato dai potenti; come straniero ai fratelli viene tradito; condannato dal tribunale, appeso alla fine ad un legno, come il peggiore tra i criminali. E straniero appare in Emmaus, risorto, ai discepoli che avevano condiviso con Lui il cammino e che l’avevano visto morire.
Lo straniero può essere preso come figura paradigmatica per l’etica cristiana.
E’ attraverso il contatto e la relazione con lo straniero che assumiamo lo straniero che è in noi, come fondamento dell’amore: è attraverso la scoperta dell’alterità, di cui lo straniero è incarnazione e simbolo, che ci è dato di leggere anche noi stessi come stranieri.
L’altro motivo dell’interesse per queste problematiche è da ricercare nel nostro essere studenti.
L’università delle origini, quella nata nella cristianità medievale, era per definizione sovranazionale; il desiderio di conoscere, di confrontarsi, di imparare, spingeva gli studenti provenienti da tutta l’Europa a raggiungere le grandi scuole sorte all’ombra delle cattedrali.
Ancora oggi, per molti di noi, il periodo universitario significa uscire dal proprio ambiente, staccarsi dalla propria famiglia, dalla propria terra; è per alcuni di noi la prima e forse unica migrazione.
Il desiderio della conoscenza, nella cultura occidentale, è stato personificato in Ulisse, la figura che esprime il viaggio dell’uomo di tutti i tempi, un uomo alla ricerca di ulteriori verità, un uomo a cui non bastano le fonti di sapere che possiede. Studiare significa anche estraniarsi, uscire dal proprio habitat naturale per aprirsi al mondo.
A nostro avviso proprio l’Università può costituire quel ponte necessario tra dimensione locale e globale: l’attenzione verso la storia e la cultura del territorio in cui è radicata deve accompagnarsi al desiderio di conoscere e coltivare il sapere nato in altre zone del pianeta, nell’ideale di essere veicolo di comprensione tra culture e comunità differenti.
Ci sembra che la politica universitaria nel futuro sempre più dovrà essere interpretata come momento strategico di integrazione, tanto all’interno dei Paesi quanto sul piano internazionale.
Il sapere è un bene molto particolare perché non perde di valore se viene condiviso, al contrario, ha sempre bisogno di essere verificato e confrontato pubblicamente e quanto più è diffuso tanto più dà frutti.
Poiché lo sviluppo socio-economico richiede un insieme di scoperte, conoscenze, metodologie e tecnologie applicabili, che possano stimolare la crescita delle attività produttive, dell’occupazione, dell’intero assetto sociale, nelle società avanzate il fattore umano e in particolare la qualità della formazione diventa l’elemento essenziale per la crescita sociale.
E questo sia all’interno che tra gli Stati stessi, perché il mondo che ci circonda è inevitabilmente interessato da questioni che sono sempre più sovranazionali.
Il presente ci chiama ad essere cittadini del mondo.
Come abbiamo scritto nelle nostre tesi congressuali, i giovani più attenti rimangono sconcertati dal contrasto tra la vivacità, che diventa spesso incalzante brutalità, delle problematiche legate alla società multiculturale e la latitanza, l’elusività o l’estraneità dei curricula scolastici e universitari su questi stessi temi.
L’Italia sta cambiando e cambierà sempre di più, occorre dirigere i mutamenti. Il pluralismo nel nostro paese crescerà e nello stesso tempo cresce la portata internazionale delle questioni, che richiedono conoscenze ampie.
La complessità delle problematiche che si prospettano richiede una conoscenza che si declini al plurale: i popoli devono sempre più collaborare perché, come già diceva il Concilio Vaticano II, “per la prima volta nella storia umana, i popoli sono oggi persuasi che realmente i benefici della civiltà possono e debbono essere estesi a tutti”. (Gaudium et Spes 9)
Di fronte alle sfide della cosiddetta globalizzazione, è crescente l’esigenza di una internazionalizzazione, innanzitutto dei dipartimenti e delle discipline. Andrebbe avviato un processo di revisione degli insegnamenti in una prospettiva di apertura alla globalità dell’esperienza umana.
Uno dei modi di interpretare questa esigenza è l’introduzione in maniera più diffusa programmi e corsi in lingua straniera; ciò al fine di diffondere la conoscenza delle lingue non solo per diretta utilità ma come vero e proprio strumento per penetrare una cultura.
Occorre inoltre dare sempre più valore la provenienza degli studenti, al loro background, perché questi accettano più volentieri di conoscere una cultura quando viene percepita come un supplemento a quella di origine e non una sua sostituzione. La crescente circolazione di merci e di informazioni, senza una condivisione delle conoscenze non fa crescere la famiglia umana verso un’unità.
Tanti laureati italiani vanno a conseguire titoli di specializzazione in università straniere, cosa certamente da promuovere. Ma perché non c’è un ugual numero di studenti stranieri che fanno lo stesso in Italia?
La civiltà muore con la soppressione del dialogo; e un’università espressione di una cultura autoreferenziale, incapace di attrarre studenti dall’estero, si pone fuori dai circuiti internazionali della formazione.
Gli studenti italiani rischiano di rimanere intrappolati in un mortificante provincialismo, senza il confronto con esperienze e tradizioni differenti.
Per le nostre università l’attrazione di menti estere sarà peraltro una scelta strategica anche perché il numero degli studenti italiani è destinato a diminuire per ragioni demografiche.
La domanda di apertura dello spazio della conoscenza si dovrebbe tradurre in progetti di mobilità interna e verso l’estero, il che significa soprattutto predisporre in modo lungimirante risorse finanziarie sia a livello nazionale che europeo.
Da questo punto di vista è da valutare positivamente la dichiarazione di Bologna del giugno 1999, con la quale i ministri dell’istruzione europei hanno voluto impegnarsi per l’evoluzione dello spazio europeo dell’educazione.
La mobilità è giustamente stata posta come uno degli strumenti principali, mobilità che andrà a semplificarsi sempre più grazie alla riforma che promuove un’armonizzazione dei cicli e dei titoli, in particolare con all’adozione di un sistema di titoli, espressi in termini di crediti didattici acquisiti, di facile leggibilità e comparabilità.
La promozione della mobilità, secondo gli impegni sottoscritti a Bologna, deve accompagnarsi alla rimozione degli ostacoli al pieno esercizio della libera circolazione con particolare attenzione agli studenti, all'accesso alle opportunità di studio e formazione ed ai correlati servizi.
Come diciamo nelle nostre tesi congressuali, il successo dei programmi europei di mobilità (Erasmus, Socrates, ecc.) è individuabile proprio nel circuito di scambio culturale che attraverso di essi si crea; non possiamo fare a meno di riconoscere come essi continuino a favorire il senso di cittadinanza europea, la conoscenza di realtà nazionali vicine ma diverse, il confronto tra metodi e abitudini, tra tradizioni culturali e di ricerca differenti. E’ dalla conoscenza reciproca che nasce il legame che si trasforma in collaborazione.
Noi riteniamo che quanto già avviene in ambito europeo potrebbe e dovrebbe essere esteso oltre i confini continentali, in particolare aprendoci a tutto il Mediterraneo, nella consapevolezza che già ora, e ancor più nel futuro, i popoli d’Europa saranno coinvolti in modo significativo dal contatto con l’Africa del Nord. I rapporti tra Europa e Paesi di tradizione islamica sono da migliorare.
Scarsissima è la conoscenza che la gente comune ha delle grandi culture islamiche e l’ignoranza non può che generare il pregiudizio e l’avversione che purtroppo sembrano sempre più trovare spazio anche tra chi dovrebbe guidare la collettività verso il perseguimento del bene comune.
Non si tratta di gloriarsi vanamente di un ingenuo, e perciò pericoloso, cosmopolitismo, ma di riconoscere che il migliore antidoto contro i conflitti tra e all’interno delle culture è la conoscenza.
Per capirsi bisogna conoscersi, a tutti è quindi richiesto di ampliare il campo delle proprie attenzioni e dei propri interessi.
In quest’ottica il ruolo delle giovani generazioni è determinante e insostituibile, anche perché esse sono naturalmente disposte all’incontro e al riconoscimento della diversità.
Crediamo che l’esperienza universitaria sia il tempo propizio per queste esperienze.
Sono proprie dello studente, in quanto giovane e cercatore di verità, l’apertura, la voglia di conoscere, la disponibilità al cambiamento, ad aprirsi, a mettere in discussione la cultura di appartenenza, rischiando la propria identità, per trovarne i motivi, le giustificazioni e rifondarla.
Ci chiediamo: può oggigiorno l’Università essere frontiera del dialogo tra le culture?
Essa non è attualmente che uno tra i tanti centri di elaborazione culturale e di trasmissione del sapere, e forse non il più potente.
Se noi giovani, che in Italia siamo sempre meno, rappresentiamo l’anello più debole nella trasmissione della cultura, in Università possiamo essere soggetti del mondo che viviamo, nella misura in cui le nostre scelte e i nostri orizzonti valoriali passano attraverso un lento e faticoso lavoro di rielaborazione critica dell’eredità dei padri.
A fronte della velocità mediatica che si impone nell’immediatezza, la lentezza dello studio diventa possibilità di mediazione e meditazione. Un’Università che prepara all’incontro con le altre culture, con tradizioni diverse, con il proprio passato attraverso i classici, libera l’intelligenza, forma spiriti critici, crea una cultura ampia.
Se è vero che nella nostra era esiste di fatto una pluralità di centri e soggetti che svolgono ricerca e offrono istruzione al di fuori della cittadella accademica, ciò non toglie che la cooperazione universitaria rappresenti uno dei migliori strumenti per rispondere in modo efficace e previdente alle esigenze di sviluppo dei Paesi interessati.
Libertà e democrazia – e quindi pace e sviluppo – dipendono soprattutto dalle dinamiche culturali e dalla formazione della classe dirigente. Nelle situazioni di difficoltà le migliori risorse umane sono spesso costrette a lasciare il proprio Paese, per dirigersi definitivamente verso nazioni già ricche.
Questo è un aspetto, spesso taciuto o sottostimato, del debito che l’Occidente ha nei confronti dei paesi poveri.
Una politica internazionale volta a restituire ciò che è stato tolto a popoli e a culture sfruttate dovrebbe agire, in modo lungimirante, sul terreno delle risorse umane. Nelle nostre tesi congressuali abbiamo proposto che, oltre al congelamento del debito estero, in modo concomitante si dovrebbero incoraggiare, ed eventualmente finanziare, progetti per la formazione superiore dei paesi debitori, al fine di creare centri e circuiti virtuosi che favoriscano la formazione di risorse umane capaci di riproporre le buone pratiche acquisite.
Il motore dello sviluppo necessita di nuova forza, quella delle nuove classi lavorative e dirigenti, che riescano a trascinare i popoli in quei processi che permetteranno loro di saldare i propri debiti finanziari. Il semplice annullamento del debito, che pure continua a presentarsi come un dovere morale, rischia altrimenti di non impedire che la situazione odierna si ripresenti, in forme probabilmente anche peggiori.
Come ci ha insegnato il Concilio Vaticano II, “la pace non può si ottenere sulla terra se non è tutelato il bene delle persone e se gli uomini non possono scambiarsi con fiducia e liberamente le ricchezze del loro animo e del loro ingegno.” (Gaudium et Spes, 78)
Preparandoci al Congresso ci siamo chiesti: qual è la responsabilità della nostra generazione?
Spesso si considera come allarmante il fatto che i giovani siano i soggetti meno legati alla tradizione, ma questo è un aspetto che ci facilita nella capacità di apertura alle novità positive.
Forse, pur vivendo in un tempo poco eroico e poco profetico, questa generazione può essere ancora in grado di anticipare i mutamenti nella società.
Dall’esperienza ecclesiale, cattolica in quanto universale, noi studenti della FUCI ci sentiamo interpellati a riflettere, a proporre e a preparare nel presente le condizioni per la convivenza, la comunione dialettica, il riconoscimento, l’appartenenza, la partecipazione e la cittadinanza in una società plurale e multiculturale.
Favorire la presenza, promuovere il ruolo degli studenti esteri è un modo per realizzare tutto questo.
Si tratta di istanze che la FUCI fa proprie e sulle quali sollecita l’impegno, innanzitutto il proprio, e l’attenzione dell’Università e della società tutta.
Angelo Bottone
Vicepresidente Nazionale