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"CONOSCERE E' CRESCERE" di Enrico Galavotti "Conoscere è crescere" - questo il titolo illuministico e quindi ingenuo che si è voluto mettere al programma dell'Unione di Prodi relativo a "scuola e università". Ingenuo perché se c'è qualcosa che nella scuola di oggi va messo in discussione è proprio il concetto di "sapere". Sia nel senso che è ora di finirla coi "saperi" precostituiti che ci arrivano dal MIUR e dalle Case Editrici ch'esso sostiene, quei saperi intangibili che vanno solo digeriti mnemonicamente e quindi acriticamente; quei saperi che non sono frutto di ricerca, di indagine, di risposte a domande aperte, ma che sono appunto pre-costituiti su alcuni aspetti fondamentali, attorno a cui ruotano, da quando la scuola e lo Stato che la comanda sono nati, i temi che tutti ben conosciamo, quasi a prescindere dalle discipline insegnate: la superiorità del capitalismo su ogni altro sistema sociale, la superiorità dell'Europa occidentale, dell'occidente, della nostra cultura tecno-scientifica-commercial-industriale e persino ancora della nostra religione su ogni altra cultura del passato del presente e del futuro. Ma anche nel senso che non è col "sapere" che il docente oggi riesce a farsi strada, a sentirsi valorizzato, a essere pagato per le competenze che ha e per le quali ha speso una montagna di soldi. Pur avendo conoscenze spesso da tuttologi, con tanto di lauree, diplomi d'ogni genere, abilitazioni, aggiornamenti ad oltranza, concorsi vinti e stravinti, il docente oggi viene pagato poco al di sopra di un impiegato amministrativo cui viene richiesto soltanto un diploma superiore. "Conoscere è davvero crescere?". Se sì, in che senso? Questa è solo una provocazione per inaugurare una serie di interventi sul progetto scolastico dell'Unione. PER UNA SCUOLA DI QUALITA' "In una società dell’informazione e del pluralismo culturale è necessaria una scuola inclusiva, di qualità, che non lascia indietro nessuno". E il programma dell'Unione arrischia proprio il perentorio presente "lascia" in luogo del più sfumato congiuntivo. Come se dal dire al fare non ci fosse di mezzo un mare! Come se bastasse dire "I care". Ma perché - ci chiediamo - oggi la scuola italiana non è forse aperta a tutti? Dov'è la selezione? Dov'è la discriminazione per censo, per provenienza sociale o culturale? Se c'è qualcuno che non bussa alle porte della scuola non è colpa della scuola, che non ha più alcuna porta. Semmai il problema è opposto: a una scuola di massa non ha fatto seguito una scuola di qualità. Abbiamo garantito il minimo a tutti, penalizzando i capaci e meritevoli (con o senza mezzi). E ora ci ritroviamo tra le mani (se si escludono i licei) una scuola prevalentemente di socializzazione, che non arriva neppure a degli intenti mirati in campo psico-pedagogico. Una sorta di "centro sociale" in cui ci si abitua a convivere, a rispettarsi e, se possibile, anche ad imparare qualcosa. Una scuola in cui si sono accettati senza alcun criterio didattico: l'inserimento di qualunque forma di handicap (a carico di una figura di sostegno, spesso mera badante, e prevalentemente di tutta la classe), l'inserimento immediato (in classe) dello straniero appena immigrato (a prescindere dalla sua conoscenza dell'italiano) e la tanto famosa quanto perniciosa equivalenza di "scuola dell'obbligo = tutti promossi" (retaggio di una cattiva interpretazione della Barbiana scuola). Una scuola in cui la mancanza di qualità fa da pendant all'entità degli stipendi degli insegnanti, rispondendo al triste principio: "ti pago poco perché ti chiedo poco". Si vuole dunque una scuola che sia di massa e insieme di qualità, in cui dovrebbero almeno essere pacifiche due cose: la selezione del personale e il controllo del suo operato, nonché la medesima richiesta che l'insegnante dovrebbe fare ai propri studenti. Richiesta che dovrebbe tradursi in parole molto semplici: "se non studi ti boccio, perché qui non si regala niente a nessuno, perché è bene abituarsi subito al tipo di società in cui dovrai prima o poi vivere, che è peraltro molto peggio della scuola, perché là non regalano niente non solo a chi non sa niente ma anche a chi sa tutto". IL PERNO DEL SISTEMA FORMATIVO Come non considerare un po' patetico che ancora oggi si dica che nel grande pluralismo "informativo" odierno (il progetto dell'Unione aggiunge anche "culturale", ma magari fosse anche questo!) la scuola debba essere "il perno del sistema formativo". E' da almeno 20 anni che la scuola non è più il centro di questo sistema. Forse indirettamente qualcosa lo sono i licei, in quanto presumono una prosecuzione di studi universitari. In ogni caso se le scuole sono ancora detto "centro", si tratta di livelli di competenza assai modesti, del tutto inadeguati alle necessità di un capitalismo avanzato, tant'è che sulla formazione e ricerca s'è speso pochissimo e l'Italia paga dei ritardi colossali nell'ambito dell'Occidente sviluppato. Ritardi compensati dalla buona volontà dei singoli imprenditori, la quale però oggi si scontra con realtà globali per loro troppo competitive (realtà che quando non sono tecnologicamente più avanzate di noi, hanno possibilità di metterci alle corde con altri sistemi da capitalismo selvaggio, come noi li abbiamo vissuti fino alla nascita del Welfare State e come oggi la destra vorrebbe impunemente ripristinare). Ma tutto sommato è stato un bene che la scuola statale abbia smesso di essere al centro di questo sistema, poiché essa s'è configurata sin dall'inizio come un'istituzione massificante, totalitaria, che ha imposto una cultura di parte (quella borghese) su tutte le altre, omologando tutto e tutti. Il vero problema però resta il fatto che la scuola odierna non risponde più alle esigenze della società produttiva: lo scollamento oggi si sta rivelando molto pericoloso, e le aziende, non aspettandosi più nulla di significativo dalla scuola statale, si attrezzano diversamente (la formazione utile per loro è tutta quella post-diploma). Oppure, non potendo fare una produzione di qualità (perché sulla formazione non si vuole spendere) si accontentano di fare una produzione con un basso costo del lavoro, utilizzando manodopera straniera (qui o altrove, delocalizzando). Io dico che in questo marasma bisognerebbe chiudere la scuola statale e riaprirla come "scuola pubblica", territoriale, strettamente legata alle esigenze di un contesto locale determinato. Una scuola gestita dagli enti locali con le tasse dei cittadini locali. Una scuola che si metta in contatto col mondo del lavoro, con la società civile e che si giochi direttamente col pluralismo effettivo che vede di fronte a sé e non con quello astratto dei libri di testo. DIFFERENTI METODOLOGIE DELL'APPRENDIMENTO Nel preambolo si vuole una scuola che dia spazio alle "differenti metodologie dell'apprendimento". Pare di sognare. Non lo sanno i politici che non esistono docenti preparati sul piano "metodologico" e tanto meno su quello "psico-pedagogico"? I docenti son divenuti tali perché hanno acquisito delle nozioni all'università, al massimo hanno appreso ulteriori nozioni (questa volta di metodologia!) presso i vari SSIS sparsi nel paese, hanno fatto un anno di tirocinio del tutto formale (ancorché faticoso), corredandolo con una tesina che nella loro didattica non utilizzeranno mai. Tutto nozionismo astratto che si riprodurrà sistematicamente nel loro rapporto con gli studenti, con l'avallo di astratti programmi ministeriali e di astratti (perché preconfezionati) libri di testo, che se c'è una cosa che meno stimola una didattica creativa, basata sulla libera ricerca di risposte a domande emerse dal confronto di opinioni (tra docenti e discenti) è proprio il libro di testo. E i docenti potranno andare avanti così ad libitum, perché i presidi (oggi, grazie a Berlinguer, "dirigenti d'ufficio") sono meri burocrati, sanno poco e nulla di metodologia didattica e ancora meno di pedagogia. Per cui evitano di "controllare". Nella scuola di oggi se esistono figure davvero capaci di diversificare le metodologie didattiche dell'apprendimento, lo devono soltanto a loro stesse, alla loro buona volontà, al loro amore per la scuola, al fatto che non riescono a rassegnarsi allo stato d'abbandono in cui da tempo versa la scuola statale. E queste metodologie servono sempre di più, e non tanto per motivi generici (come si evince dal testo dell'Unione, per il quale comunque bisogna dire che almeno un "testo" c'è, perché nel campo del centro-destra c'è solo la volontà di favorire le scuole private del mondo cattolico), quanto piuttosto per due ragioni:
Non solo la scuola è alla frutta ma anche la famiglia, che interagisce con la scuola solo per ottenere col minimo sforzo la promozione dei propri figli, anche a costo di porsi contro (come sempre più spesso avviene) al corpo docente, nella generale consapevolezza che la scuola serve soltanto per il famigerato pezzo di carta, che la vita è tutta un'altra cosa e che se non ci fosse l'obbligo sino a 15 anni o l'obbligo (de facto) di prendere un diploma superiore, molti sicuramente si sarebbero fermati prima. Ogni genitore vorrebbe una specifica modalità didattica d'apprendimento per il proprio figlio e quando non riesce ad ottenerla va a sindacare sulla modalità adottata e si permette di dire che da parte dell'insegnante c'è qualcosa che non va. E se proponessimo ai genitori di ritornare sui banchi? Se chiedessimo loro di riprendere il filo del discorso interrotto nella loro adolescenza, affrontando però questa volta argomenti di attualità? Non vorrà mica un genitore essere messo nella condizione che il figlio tutto bello "informatizzato" e "multimedializzato" gli dica: "Sta zitto te che non capisci niente"? Orsù genitore, vuoi davvero una didattica diversificata per tuo figlio? Bene, partiamo allora da te! PER UNA SCUOLA PUBBLICA E LAICA Davvero a scuola "si forma la cittadinanza"? Se sì, in che senso? Il programma dell'Unione lo dice: "Qui tutti crescono insieme, qui si costruisce la Repubblica, qui si gettano le fondamenta di un’etica pubblica laica e condivisa, rispettosa delle scelte, delle fedi, delle convinzioni di ognuna e ognuno. La scuola è una garanzia per la democrazia". "La scuola può essere per gli studenti anche luogo di integrazione, dove vengono valorizzate le differenze e rifiutate le discriminazioni e i pregiudizi". Si parla di una "scuola laica che non c'è" e che mai potrà esserci in uno Stato confessionale come il nostro, che in virtù dell'art. 7 della Costituzione impone a tutte le scuole di ogni ordine e grado l'insegnamento della religione cattolico-romana, i cui insegnanti, col governo Berlusconi, sono stati addirittura messi in ruolo senza dover affrontare alcun concorso pubblico. Perché non dirlo? Perché essere così astratti e far credere che la laicità sia patrimonio di scuole che devono accettare non solo il simbolo del crocifisso e l'ora di religione, ma anche la messa d'inizio anno, la benedizione pasquale, le priorità parrocchiali catechistiche su quelle didattiche, la stessa chiusura della scuola secondo le festività di un calendario religioso e, quel che è peggio, il rischio da parte dell'insegnante d'essere tacciato di "manipolatore di coscienze" nel caso in cui esprima idee di tipo ateistico. Per non parlare del fatto che non c'è libro di storia o di letteratura che non prenda le difese della religione cattolico-romana quando questa si trova in conflitto con le idee del socialismo scientifico o con quelle delle rivali protestante, ortodossa, ebraica, islamica e indo-buddista. Sì "la scuola è una garanzia per la democrazia", ma a condizione che si rinunci al lato confessionale che la caratterizza. Che democrazia può esserci quando una religione è chiaramente privilegiata rispetto a tutte le altre? Il programma dell'Unione avrebbe dovuto dire che proprio in virtù delle crescenti ondate migratorie di questi ultimi decenni e anche a motivo del fatto che nella società civile si vanno sempre più diffondendo i fenomeni della secolarizzazione e della laicizzazione dei costumi, rendendo non più socialmente ovvia l'adesione di fede al cattolicesimo romano, è necessario che la scuola statale si attrezzi culturalmente al fine di permettere un'integrazione davvero democratica a tutte le componenti della società. Questo sarebbe stato il minimo, perché il massimo sarà quando la scuola statale non sarà più "statale", cioè patrimonio della classe borghese, ma "pubblica", cioè patrimonio di tutti, in cui finalmente potranno confrontarsi alla pari le culture borghese e socialista, la cultura che privilegia gli affari privati su quelli pubblici contro quella che fa l'opposto. L'INTEGRAZIONE SCOLASTICA DELL'HANDICAP E DEGLI STRANIERI "... noi crediamo indispensabile anche potenziare la qualità dell'integrazione scolastica delle persone con disabilità, garantendo personale specializzato e adeguati servizi territoriali, al fine di rimuovere ogni barriera architettonica, percettiva e culturale al pieno esercizio del diritto allo studio degli studenti con disabilità". Così dice il programma dell'Unione, ma se non si scende nel concreto si rischia di fare solo della demagogia, del populismo a buon mercato. Oggi la scuola dell'obbligo non è se non in misura molto modesta un "luogo dell'apprendimento"; essa è diventata piuttosto un "luogo della socializzazione" e purtroppo stanno prendendo questa piega anche molti istituti superiori, i cui diplomi vengono considerati di scarsa rilevanza per il mercato del lavoro. Siccome però un diploma ci vuole... E' il solito discorso. Noi non possiamo addebitare questo incontestabile calo del rendimento, cioè del cosiddetto "profitto scolastico", al fatto che la scuola sia diventata di massa. Resta comunque anomalo che questo calo sia avvenuto in maniera progressiva, proprio a partire dal momento in cui le esigenze del mercato del lavoro andavano aumentando. Quanto più la società è andata complicandosi, tanto meno la scuola italiana è stata capace di offrire del "materiale umano" all'altezza delle esigenze. Al punto che oggi la vera "formazione" non viene fatta a scuola, ma successivamente, o direttamente sul luogo del lavoro o con corsi post-diploma. Oggi non esiste più alcuna forma di "selezione" nella scuola statale. Dopo i "Decreti Delegati", che avevano cercato di recepire nella maniera più sbagliata possibile (perché sostanzialmente burocratica) i grandi insegnamenti della "Scuola di Barbiana", la scuola statale, invece di acquistare una propria dignità, è andata progressivamente perdendola. Il dramma più acuto l'ha vissuto soprattutto la scuola media, poiché mentre la scuola elementare era stata caratterizzata da una serie di riforme che l'avevano profondamente innovata (riforme in gran parte smantellate dalla Moratti), la scuola media invece ha subìto sia le terribili accuse della "Scuola di Barbiana", sia la burocratica riforma dei "Decreti Delegati", senza rinnovarsi minimamente (tanto che il ministro Berlinguer, su suggerimento di noti pedagogisti, la voleva abolire del tutto). La scuola media è diventata progressivamente la scuola in cui si deve promuovere a prescindere dal merito: scuola dell'obbligo = tutti promossi. Esattamente come per la scuola elementare, con la differenza che però in quest'ultima s'era impostata una sana programmazione, un lavoro organico d'équipe ecc. All'interno di questa equazione s'è inserito il discorso dell'integrazione dell'handicap, di qualunque handicap, cioè anche di quello che ha limiti insormontabili all'apprendimento e che inevitabilmente contribuisce ad abbassare i livelli già bassi dell'utenza normale. Non solo, ma se la classe è un mero luogo di "socializzazione", di "convivenza civile", allora, per lo stesso motivo con cui s'è accettato l'inserimento di qualunque forma di handicap, così oggi si può accettare l'inserimento di qualunque alunno straniero, senza neppure garantirgli almeno un semestre di apprendimento della lingua italiana. Che cosa è diventata la "classe", in cui i docenti si illudono col gioco delle compresenze, di poterla distinguere in "livelli" o "fasce" di apprendimento? "Recupero Consolidamento Potenziamento" sono soltanto parole vuote nella media dell'obbligo, sia perché relegate, come orario, ai margini di quello curricolare (là dove esistono 36 ore se ne fanno al massimo quattro, da ruotare tra i docenti), sia perché se si svolgesse un eccessivo "potenziamento" si creerebbero degli scompensi ancora più grandi quando tutta la classe è riunita. Questo per dire che è il concetto di "classe" che non funziona più. Bisogna rovesciare i termini: il concetto di "livello" deve servire per l'apprendimento e deve essere assolutamente prioritario, sicché quando uno studente supera un certo livello, passa immediatamente a quello successivo; viceversa il concetto di "classe" può servire solo per garantire di tanto in tanto la socializzazione tra gruppi di livello diverso, in modo che tutti gli alunni si abituino, nonostante le differenze nell'apprendimento, a convivere in maniera civile e democratica. Se la scuola resta solo un luogo di "socializzazione", la capacità di convivere pacificamente, la stessa motivazione alla frequenza scolastica andrà progressivamente scemando, in quanto gli alunni hanno bisogno di mettersi a confronto, di competere tra loro, e lo stesso insegnante ha bisogno di strumenti coercitivi con cui dimostrare che la scuola è un ambiente in cui bisogna impegnarsi seriamente per poter conseguire determinati risultati. E' incredibile che dopo l'insegnamento dei grandi pedagogisti classici, ancora si debba discutere di queste cose. Ma forse è bene discuterne, perché la pedagogia in realtà non è mai entrata nella scuola statale. IL CONCETTO DI AUTONOMIA SCOLASTICA "Per rilanciare la scuola sfrutteremo la sua forza principale, quella dell’autonomia. La progettualità e l’innovazione che vengono dal territorio sono risorse preziose, cui dovremo dare spazio, accogliendo il dibattito culturale e le sperimentazioni coraggiose". L'autonomia sarebbe la "forza principale" della scuola statale italiana? Vien quasi da ridere. La scuola italiana è nata come apparato ideologico di stato, come strumento formativo e informativo soggetto a profonde gerarchie burocratiche e amministrative (dalle sovrintendenze regionali agli odierni CSA, sino al MIUR), politiche (ogni governo in carica ha sempre fatto una qualche riforma scolastica nazionale) e culturali (l'imperante cattolicesimo-borghese). Forse di "autonomia" sarebbe meglio parlarne nel caso della Svizzera, che ha scuole tra le migliori del mondo, avendo una tradizione pedagogica consolidata, e dove neppure esiste a livello nazionale un Ministero per l’istruzione e l’educazione, in quanto tutto si decide a livello Cantonale e Comunale. (Vedi questa intervista oppure leggi questo documento) E' giustissimo mettere in rapporto la scuola "pubblica" (che va sostituita a quella "statale") con le esigenze del territorio locale, ma è impossibile che ciò possa essere fatto in maniera organica, senza prima aver fatto degli Enti Locali Territoriali i veri gestori della formazione locale pubblica. Ma per fare questo, cioè per far funzionare la scuola, occorre che questi Enti siano dotati delle necessarie risorse economiche. E non è possibile avere queste risorse se prima non si afferma il principio del "federalismo fiscale". Una qualunque riforma strutturale della scuola, che la faccia diventare una risorsa territoriale, basata su esigenze territoriali, è strettamente connessa con una riforma dello Stato in senso federale, proprio perché la scuola italiana s'è configurata sin dalla sua nascita come una emanazione diretta dello Stato centralizzato. Quando si parla di "autonomia scolastica" bisogna essere convinti di questo, altrimenti si finisce o coll'assegnare agli Enti Locali nuovi insopportabili oneri, o col racchiudere il concetto di "autonomia" entro forme di libertà del tutto irrilevanti, come quella p.es. di decidere il calendario scolastico o la gestione di una quota irrisoria dell'orario scolastico. Che senso ha parlare di "autonomia" quando nessuna scuola statale è in grado di selezionare né il personale dirigente né quello docente, quando i docenti sono costretti ad accettare l'adozione di libri di testo imposti dalle case editrici, quando sono costretti ad accettare dei programmi ministeriali che non tengono conto (né potrebbero farlo) delle specificità locali, quando la decisione di mettere in piedi determinati istituti è vincolata a mille permessi ministeriali? La scuola pubblica va gestita dalla comunità locale, con le tasse dei cittadini locali. Quindi è sbagliato sostenere che "bisogna evitare che l'autonomia si risolva nel localismo e nell’autoreferenzialità". Questo è l'ennesimo modo "centralistico" di vedere le cose. Non è lo Stato che deve tenere unite le comunità locali, non è lo Stato che deve far sentire "nazionale" una comunità locale. Le comunità locali hanno bisogno di vivere la democrazia, la gestione diretta del territorio. L'unica cosa che lo Stato può fare è soltanto quella di favorire questa progressiva riappropriazione di competenze. Lo Stato deve imparare a farsi da parte, deve cominciare a capire che la società civile è in grado di gestirsi da sola. Non abbiamo bisogno dell'"istituzione di Conferenze territoriali apposite" che si affianchino ai CSA, perché questo vuol dire aggiungere burocrazia a burocrazia, cioè fornire ulteriori puntelli a uno Stato che in ultima istanza vuole restare centralista. E' singolare che una sinistra che negli anni Settanta parlava di "regionalismo" quando la Democrazia cristiana era fortemente "centralista", oggi si ritrovi a svolgere il medesimo ruolo di quel partito, restando sorda a tutte le istanze del federalismo. "Compito dello Stato" non è quello "di garantire il carattere unitario del sistema nazionale pubblico di istruzione ed istituire un servizio di valutazione qualificato ed indipendente, in grado di intervenire per ridurre le disuguaglianze". Ma è quello di porre le condizioni perché la società civile si possa garantire da sola questo "carattere unitario" dell'istruzione pubblica (cosa che sul piano economico vorrà dire stipulare convenzioni tra una comunità e l'altra). Basta con le direttive dall'alto, anche perché le istanze locali sono diventate più consapevoli delle loro specificità e non c'è direttiva dall'alto in grado di capirle e di soddisfarle. Non è lo Stato che deve garantire l'unità nazionale. L'unità si garantisce da sola, grazie all'impegno della società civile. Quanto al progetto sulle "reti di scuole" rimando direttamente a quello che da tempo stiamo cercando di realizzare nella provincia di Forlì-Cesena e che naturalmente si scontra con problemi finanziari di non poco conto. GLI OBIETTIVI FORMATIVI Ha davvero senso "definire gli obiettivi formativi validi per tutto il territorio nazionale e i livelli essenziali delle prestazioni relativi all’istruzione e alla formazione professionale; istituire un servizio nazionale di valutazione qualificato e indipendente"? Voglio riportare qui delle cose dette una decina di anni fa e che ancora oggi sottoscrivo pienamente. Il nostro paese è davvero una realtà così omogenea da poter garantire dei risultati statistici obiettivi? Personalmente ritengo che un Sistema "Nazionale" di Valutazione che non tenga conto delle differenze regionali (e subregionali) non serva a niente. Credo infatti che sia solo sulla base delle differenze regionali (e locali) che si possa scoprire quante e quali possibilità abbia uno studente medio (o in media) di frequentare la scuola e di applicarvisi con profitto. Questo in sostanza significa che se in una regione (o contesto locale) di scarse possibilità, la Valutazione dovrà premiare molto uno sforzo anche minimo compiuto in direzione della formazione scolastica e culturale; in altre regioni, dove ci sono molte più possibilità, la Valutazione dovrà porsi altri obiettivi. Non ha senso distinguere la Valutazione secondo ordini e gradi di scuole, senza tener conto delle differenze socio-ambientali, che possono caratterizzare scuole di ordine e grado omogenee. Ecco perché i concorsi dovrebbero essere tutti regionali e i trasferimenti interregionali dei docenti dovrebbero essere preliminarmente sottoposti a dei test di verifica. L'Italia è un paese troppo disomogeneo perché possa essere paragonato ad altre nazioni europee. Noi abbiamo tra le regioni più avanzate d'Europa, e altre tra le più arretrate. Su quali standard geografici si decideranno i criteri di Valutazione? Se prendiamo quelli esistenti nelle regioni più avanzate, le più arretrate rimarranno tagliate fuori; se il contrario, quelle avanzate torneranno indietro. In sostanza ancora non ci si rende conto che non può essere la realtà locale ad adeguarsi ai criteri astratti di Valutazione imposti dal Ministero, che, quale istituzione di carattere nazionale, non ha alcun sentore per le diversità locali e regionali. L'autonomia effettiva del sistema scolastico è vista quasi come una minaccia di frantumazione. Di qui l'esigenza di tenerla sotto controllo tramite meccanismi burocratico-intellettuali, come appunto il Sistema di Valutazione Nazionale. Dunque i criteri di valutazione oggettivi (omogenei per territorio: provinciale o regionale) possono essere decisi solo da un'équipe di docenti che conoscano bene la realtà del loro Istituto e del contesto locale in cui esso vive. Un sistema oggettivo di valutazione serve soltanto per sapere a livello locale quali sono gli obiettivi che si possono e si devono raggiungere. Poi se uno vuole spendere le proprie competenze al di fuori del proprio territorio, sarà compito della realtà che dovrà ospitarlo verificarne concretamente l'effettiva entità. I titoli di studio, in un sistema scolastico completamente sganciato dalle esigenze territoriali, hanno un valore molto relativo. IL DIRITTO DI IMPARARE PER TUTTA LA VITA La seconda parte del progetto dell'Unione ha un valore più che altro "etico", nel senso che se non si affrontano e risolvono i problemi che emergono nella prima parte, non si riuscirà a venir fuori dal limbo delle buone intenzioni. Cioè il fatto che attualmente il nostro paese abbia, rispetto agli altri paesi europei, "il più basso livello di istruzione, una dispersione scolastica intorno al 30%, carenze nelle discipline matematiche e scientifiche, il minor numero di laureati e di ricercatori, il minor livello di investimenti dedicati ai sistemi formativi", non significa nulla se prima non risolviamo il problema del rapporto organico tra scuola e territorio, tra autonomia scolastica e federalismo fiscale. Non si risolvono i suddetti problemi semplicemente alzando il livello di obbligatorietà degli studi, portando tutti gli studenti ad avere un qualche diploma: non si risolvono problemi qualitativi con determinazioni quantitative. Anche perché il rischio è quello di avere molti "diplomati analfabeti", possessori di titoli che essendo rilasciati dietro il panico delle situazioni di emergenza, hanno nella sostanza un valore quasi nullo, come è nullo il valore della licenza media (conseguente all'equazione "scuola dell'obbligo = tutti promossi") e purtroppo anche di molti titoli di media superiore (a motivo del fatto che la collocazione lavorativa dei giovani è resa molto problematica da un mercato asfittico come quello italiano, dominato da un capitalismo familistico, in cui molto raramente si tiene conto del merito, delle competenze, delle esperienze ecc.). La stessa "dispersione scolastica" sarebbe sciocco attribuirla alla scuola più di quanto non sia attribuibile alla stessa società, di cui la scuola è ormai diventata specchio opaco, all'interno della quale si sommano frustrazioni d'ogni genere e che rendono la funzione dell'insegnamento qualcosa di piuttosto avvilente. Il sistema scolastico da tempo è stato abbandonato al suo destino e tutte le riforme che gli sono piombate addosso in questi ultimi 15 anni non hanno fatto altro che peggiorare la situazione. Anche perché alla resa dei conti esse si sono sempre risolte in una riorganizzazione favorevole ai tagli del personale e ai risparmi di bilancio. Peraltro servono a poco anche le comparazioni con gli altri paesi europei. P.es. il fatto stesso che si dica che occorre "valorizzare ed incentivare i percorsi di studio in discipline matematiche, scientifiche, tecnologiche", di per sé non significa nulla. Infatti, se guardiamo le cose dal punto di vista meramente disciplinare, dovremmo dire che forse altre materie sono più importanti di queste, come p.es. diritto ed economia, informatica e inglese, la padronanza dell'italiano scritto e la conoscenza della storia contemporanea. Non pochi anni fa, in una mailing list scolastica, si affrontò questo tema e si giunse alle seguenti conclusioni, che mi sento di sottoscrivere ancora oggi. Si parlava di "Competenze Fondamentali Trasversali": 1. SALUTE. "Mens sana in corpore sano", dicevano i latini. "Educazione alla salute", dicono oggi tutti i "Progetti Giovani", e per "salute" s'intende quella globale dell'essere umano: psico-fisica, mentale, socio-ambientale. Il vero "bene-essere" sta nell'equilibrio di interno ed esterno, nell'armonia delle parti, nella naturalezza dei rapporti… 2. LINGUAGGIO. "In principio era il logos", recita il prologo di Giovanni. "Le lingue le creano i poveri -diceva la Scuola di Barbiana- e poi seguitano a rinnovarle all'infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro". Dunque, piena padronanza della lingua in generale e della lingua italiana in particolare, dalle sue radici latine, dialettali… sino agli influssi stranieri, antichi e moderni. Studiata in tutti i suoi modi d'esprimersi. 3. COMUNICAZIONE. "Qual è il tuo nome?" - chiese il ciclope a Ulisse. "Il mio nome è Nessuno" - gli rispose, e lo ingannò. "Tutto ciò che crediamo -diceva Ambrogio di Milano- lo crediamo o attraverso la vista o attraverso l'udito". Ebbene, in una società mass- e multimediale, telematica e cibernetica come la nostra -dove le cose accadono nel momento stesso in cui qualcuno le dice- non avere padronanza critica delle leggi che governano la comunicazione, significa essere come canne al vento. 4. AMBIENTE. Con un bellissimo errore matematico, il filosofo francese Edgar Morin disse che "l'uomo è 100% natura e 100% cultura". Il mondo non è una macchina, ma un organismo vivente, complesso, delicato, interconnesso, interdipendente, assolutamente integrato. "Il battito d'ali d'una farfalla in Amazzonia potrebbe causare un'imprevista tempesta in Florida". La scuola non può non saperlo. 5. LEGALITA'. "Liberté, égalité e fraternité" non erano e non sono parole vuote. "Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te", non è una massima obsoleta. Però occorre che a scuola si apprenda come mettere in pratica le "belle parole", per potersi educare a diventare veri uomini e veri cittadini. 6. ECONOMIA. "Al giorno d'oggi, a confronto della critica dei tradizionali rapporti di proprietà, lo stesso ateismo è culpa levis" -scriveva Marx ne Il Capitale. Forse per questo lo studio dell'economia è sempre stato visto con sospetto nelle scuole italiane? Eppure oggi viviamo in un'epoca dominata dalle leggi del profitto: è possibile che uno studente non sappia neanche leggere un conto corrente bancario? 7. ATTUALITA'. "Né il futuro, né il passato esistono -diceva Agostino d'Ippona. Noi misuriamo il tempo nell'attimo in cui passa e lo misuriamo percependolo". Dunque, della triade Passato-Presente-Futuro, la scuola deve privilegiare il Presente, perché è nel Presente ch'essa vive e deve far vivere. Senza cancellare la memoria del passato, senza negare al futuro una speranza. Tutte cose che dovrebbero valere non solo per i giovani studenti ma anche per gli adulti. In tal senso mi sento di approvare in pieno quanto vien detto nel programma dell'Unione: "raddoppiare il livello di partecipazione degli adulti a percorsi di apprendimento permanente, nella prospettiva di raggiungere il 12,5% previsto dalla UE". |
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