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Il conoscere e la prova regina

di Gabriele Boselli 

Sono lieto di cogliere, tra le 19 magnifiche neo-Indicazioni  di Claudia Fanti (in Rallentare la Corsa), un invito a buttar via la scaletta della programmazione, invito condiviso (sorpresa!) da Maurizio Tiriticco in Unità di apprendimento e piani personalizzati), sempre su Educazione e scuola.  Noi postprogrammatori lo andiamo dicendo e scrivendo dal 1987, indipendentemente da e prima della 148, della riforma Berlinguer, della riforma Moratti, della….prossima.

Le riforme scolastiche successive a quella di Giovanni Gentile appaiono evolvere come le Nuvole di una canzone di Fabrizio De Andrè: a volte seducenti, tal’altra minacciose, “vanno, vengono, qualche volta ritornano”. Possono far velo al sole, non cancellarlo; possono oscurare la tradizione delle scuole d’Occidente splendidamente resa nello scritto della Fanti, non eliminarla; possono procastinare il futuro, non azzerare il Novum comunque creato dai bambini e dagli insegnanti delle scuole d’Italia e d’Europa. In generale, hanno espresso ed esprimono l’essenza della cronaca, non lo Spirito (vento, fondazionale direzione di senso) della storia.

Quest’ultimo progetto di riforma che giunge alla nostra attenzione appare tuttavia pedagogicamente intenzionato a una scuola  più aperta alla Tradizione e al Novum  di quella disegnata ad esempio negli americaneggianti curricula De Mauro. Sul piano culturale ha il merito di essere un testo “continentale”, di riprendere alcune suggestioni della pedagogia del Risorgimento, delle grandi pagine gentiliane, del pensiero personalistico. Pur tra molti incongrui spifferi secondari, il vento della Storia torna a soffiare. Un passo indietro che è anche un buon passo in avanti, specie quando si coniuga con la Teoria della complessità e taluni aspetti della koinè ermeneutica. Ne derivano conseguenze rilevanti sul piano delle linee programmatiche e della progettualità (si entra di fatto in qualcosa di simile alla postprogrammazione) e della documentazione (portfolio a rimedio dell’oggettivismo di marca vertecchiana fatto proprio anche dal nuovo INVALSI).

La prevalente didattica moderna e i programmi scolastici degli anni 70/90 hanno presupposto i contenuti e le tecniche del conoscere alla coscienza del soggetto; non solo, quest’ultima pare non l’abbiano vista proprio. In tal modo, il prescindere di un programma scolastico da ogni teoria filosofica della coscienza e del conoscere può aver finito –ove gli insegnanti non vi abbiano posto rimedio- con l’annegare la persona nel gran mare dei contenuti o dei tatticismi psicologistici e didatticistici, dunque con il promuovere conoscenze senza soggetto o discepoli senza conoscenze disciplinari e visioni d’insieme.  La persona che nell’ambiente culturale della scuola impara a sapere di sé, e con sè del mondo, è da riconoscersi insieme all’insegnante come il soggetto essenziale (generativo) e necessario del conoscere; prescinderne pregiudica ogni possibilità di conoscenza autentica.

Non scegliere e non esplicitare una teoria della conoscenza vuol dire solo nascondersela o nasconderla o far mancare al programma il nesso con le soggettualità che vi dovranno entrare. Uso prevalentemente il verbo conoscere  in quanto ciò di cui si tratta indica essenzialmente azione, attività soggettuale/intersoggettuale di disegno continuamente riconfigurato di mondi-a; luce pura, scriverebbe Dante con Bonaventura da Bagnoregio. Scrivo conoscenza quando mi riferisco a quell’immenso patrimonio dei saperi dell’uomo che l’attività scolastica dovrebbe portare a condivisione, ricostruzione e almeno un poco a ri-creazione. Una scuola vera risolve la conoscenza in conoscere, in nuova luce.

Il capire di non aver capito –lo sappiamo dai tempi di Socrate- è il primo approdo dell’autocoscienza, di quella coscienza interna che si costituisce prendendo contatto con il limite (interno? esterno? comunque sentito come tale). Io sono colui che non sa certe cose, che non capisce altre cose, che non riesce a configurare adeguatamente la massa di fenomeni materiali e immateriali che si prospettano alla presa di coscienza del “mondo”, qui intendendo per mondo il complesso delle cose percepite nell’attualità della coscienza.

La conoscenza è il sentiero, storicamente sedimentato e diuturnamente reinverato da tutte le scienze, che raccorda l’io a quel campo globale di fenomeni che gli si configura intorno e che questi sceglie (o è indotto a porre) come argomento intero del suo conoscere.

La conoscenza è la forza gravitazionale dell’intelligenza umana storicamente formatasi che porta una coscienza a entrare in una relazione più razionale (inquadrata dall’attività “legislatrice” del sapere costituito) con il mondo, intendendo questa volta per mondo l’insieme delle relazioni che la coscienza trascendentale dell’umanità intrattiene con le sue rappresentazioni culturalmente consolidate, con l’universo dell’esserci. Di lì, da questa espansione della coscienza nell’altro-da-se deriverà l’oggettualità del mondo ovvero l’esser il non-solo-io oggetto di operazioni di coscienza.

La percezione che il conoscere è sempre l’atto infinito,  irripetibile e improgrammabile di una coscienza nel suo incontrarsi con la cultura ( Hervè A. Cavallera ) è quel che è mancato nella didattica ufficiale degli ultimi vent’anni. I pedagogisti della riforma se ne sono accorti e conseguentemente propongono di guardare a scenari didattici meno legnosi e coerenti con l’indicazione a guardare non all’individuo (“born in U.S.”, detto alla Sting) ma alla persona (killed in U.S.) ovvero, nella grande tradizione classica e cristiana europea, al soggetto in relazione con la comunità umana e che vive entro un ampio e non ipocrita orizzonte di valori.

Le Indicazioni ufficiali e il “tutor” sono stati oggetto di dure critiche ma i problemi veri sono altri: politici (vedi il mio Educazione e Politica, su questa stessa rivista) e di finalizzazione economica ovvero di possibile riduzione, a regime, di 1/4 circa del corpo insegnante della scuola elementare, se le risorse liberate dal maestro quasi-unico non saranno reinvestite per funzioni organizzative o per l’emergenza più grave e attualmente non affrontata con specifiche figure, ovvero quella costituita dagli alunni stranieri.

Il quadro culturale e pedagogico che si va manifestando in questo inizio di riforma –si è appena detto- è positivo ma volte la funzione effettuale di un quadro teorico può essere compromessa dai numeri che la accompagnano. Facciamo credito al bravo Giuseppe Bertagna e agli altri pedagogisti della riforma, i quali sono certamente in buona fede; confermeremo la nostra fiducia al sistema se alla fine, relativamente alla massa e alla difficoltà degli alunni, le risorse complessive a disposizione della costellazione scolastica risulteranno accresciute o almeno rimaste sostanzialmente invariate. Significherà che, oltre a noi, non saranno stati solo Bertagna & C. a crederci. E se così non andasse, non prendiamocela con chi ci ha provato.


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