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Raffaele Iosa DA ERODE ALLA QUADRATURA DEL CERCHIO
Non sono stato un buon profeta. Nel mio articolo di dicembre "Bertagna/Moratti: tra Erode e Iva Zanicchi", (vedi https://www.edscuola.it), dicevo "…troppo reazionario e perfino rancoroso il documento Bertagna per non pensare che, ancora nascosto, non vi sia il "vero documento", più morbido, che il ministro lancerà come segno dell’arte di mediazione". E ancora: "Insomma: ritornare ad Erode (la strage degli innocenti, la scuola come nuova selezione sociale) passando per Iva Zanicchi. il fatto solo di portarlo agli Stati Generali è una prova di forza, poi la mediazione cercherà di spostare il più a destra possibile la filosofia della scuola, pur concedendo pezzettini a tutti di consolazione". Ho sbagliato previsione. Letizia Moratti ci aveva provato, con la bozza di Disegno di Legge presentato ieri al governo. Ma clamoroso: il "vero documento di consolazione" è stato sonoramente bocciato. Una serie di contestazioni dai ministri, le più disparate e contrastanti, diversissimi punti di vista impossibili da mediare. Si voleva la quadratura del cerchio ma non ha funzionato. Dal CCD che non vuole i bambini più presto a scuola (ci sono le suore), ad AN che cinque anni di liceo o morte, alla Lega che non vuole far niente da Roma, alle regioni che si sentono scippate, al ministro Giovanardi (noto pedagogista) che non vuole che maestri e professori si incontrino neanche nei corridoi. Al torvo Tremonti che ha altre spese per la testa. Così appare quello che sempre ho pensato. Non c’è alcun pensiero serio di vera riforma in tutto ciò che è avvenuto finora. Si faceva presto a smontare la proposta Berlinguer, ma chi semina vento raccoglie tempesta. A questo punto finirei l’articolo e buona domenica! Da lunedì è tutto più difficile, più si vorrà quadrare il cerchio più si complicheranno le cose. Aleggia aria di rimpasto e perfino aria di un bello stop a qualsiasi riforma. Ma questo è forse l’obiettivo: sono arrivato, infatti, a pensare che gli Stati Generali e la bozza sui cicli fossero una sorta di "atto dovuto", un’operazione mai davvero cercata da questo governo. Meriteremmo almeno il risarcimento danni (certo quelli uditivi) per il flop degli Stati generali. Troppo complicato fare le riforme, troppi interessi in gioco. Forse sono ben altri gli interessi, poca la passione per la scuola, nulla per la pubblica. La scuola serviva in campagna elettorale: chi semina vento raccoglie tempesta. Ma c’è poco da gioire. In chi crede si debba cambiare qualcosa viene la depressione per questo paese splendidamente immutabile; in chi timidamente aveva cominciato a pensare che si doveva cambiare, torna le pennichella; nei furbacchioni rimasti in attesa, scoppia adesso l’esultanza del gattopardismo. Penso anche a certi "signori però" della sinistra culturale, che con i loro mal di pancia (licealisti e disciplinisti in primis) hanno indirettamente dato voce alla teoria del "meglio non fare". Temo la disaffezione. La sento in giro. In realtà penso che gli interessi veri siano stati, in questi mesi, altri dai cicli. Mentre Bertagna alacremente lavorava (anche contro i suoi colleghi..…vedi la seconda versione della commissione), si approvavano oggetti originali quali l‘esame di stato casereccio con i soli commissari interni (diplomifici esultanti), una parità invadente, preti e suore ex preti ed ex suore tutti assunti, e cose di questo tipo. Uno scambio politico e culturale chiaro: abbraccio con i ceti moderati e clericali (non religiosi), qualche occhiolino al sistema aziendale, un messaggio rassicurante alle vestali della classe media della scuola per un bel ritorno indietro alle quiete acque dorotee. Questo è il segno politico: smontare il rinnovamento e la qualità del sistema scolastico pubblico a partire dal suo non rinnovarlo, lasciandolo andare alla deriva. L’immagine è quella di un paese politico che sembra cercare il consenso sulle paure del cambiamento, a qualsiasi prezzo, e che non ha il coraggio di scelte strutturali. E’ così vero questo che nello stesso modo interpreto il recente provvedimento ministeriale che di fatto vorrebbe (vorrebbe) ripristinare i provveditorati, alla faccia delle scuole autonome e dei sistemi integrati con il territorio.
Spigolature per capirci di più Visto che da lunedì qualcosa dovrà cambiare, da questa riga in poi le mie osservazioni sono solamente un accademico esercizio di analisi di alcuni aspetti della bozza dell’11 gennaio, quelli più intriganti e contraddittori, quelli utili a capire perché non funziona. Tanto per prepararsi almeno a capirci di più.
Eppur sembrava dorotea… Se il governo fa fatica ad accettare questa proposta vuol dire proprio che le contraddizioni al suo interno sono grandi. Perché a me la proposta sapeva del più tradizionale doroteismo: non cambiare sostanzialmente nulla, se non alcune "piccole" cose riguardanti i ragazzi malmessi e i poveracci. Infatti per circa l’80% degli alunni (i figli del ceto medio) e il 90% degli insegnanti, il messaggio è: quasi nulla cambia (3 materne, 5 elementari, 3 medie, 5 superiori); per il 20% che resta si offre, dopo la scuola media, una sotto-scuola professionale. Questa è la chiave di tutto, il "tentativo di consolazione" del ministro Moratti: mantenere tutto così com’è espellendo presto i figli del disagio socio-economico fuori dai cicli tradizionali. Cosa altro è questo sistema professionale duale (per come è stato pensato) se non questo? Al proteiforme corpo della middle class si voleva dare un messaggio rassicurante (tutto come prima), ma anche egoistico visto che si dividerebbero prima possibile (dai 14 anni sicuramente, ma con effetti di orientamento selettivo nella media) i ragazzini bravi dai ragazzacci che disturbano e vengono già ora bocciati. A questi ragazzacci piuttosto che l’utopia astratta della sinistra (più scuola unitaria per tutti) viene offerto poco e meno, nel sicuro recinto della manualità. E che si accontentino, altro che astrusi diritti. Conservatorismo compassionevole. Sangue dal muro non se ne cava, un po’ di realismo. Con questo si spiega anche la retorica della scelta delle famiglie, la privatizzazione, i nuovi esami di stato. Familismo, convenienza, abitudini tradizionali, paura delle differenze, una società chiusa e timorosa: questa è la destra! La bozza pareva un buono specchietto per le allodole centriste politicamente ingenue (non cambia nulla e basta), addomesticava il pensiero pedagogico di Bertagna, qui ovattato (viste le polemiche per la grevità dei contenuti) in attesa dei regolamenti (cioè di tempi e ministri nuovi?). Intanto, anche nel 2002 nessuna riforma dei cicli partirà: è sicuro ormai, visti i tempi parlamentari. Due anni persi dopo la Legge 30. Questo è un altro bel segno: forse (forse) non succederà (quasi) nulla, se (se) succederà non è subito. Se (se) succederà succederanno poche cose. Forse succederà il nulla. Appunto. Eppure la bozza di DDL pareva la quadratura del cerchio…
Il guaio delle elementari e medie separate L’impossibilità della quadratura del cerchio nasce dall’ostinata volontà di mantenere elementari e medie così come sono. E dall’inveterata volontà di mantenere i licei di cinque anni. A meno che non si incominci l’elementare a cinque anni, ma anche qui quanti guai! Ma questo vuol dire tredici anni, non dodici, e finire a 19 non a 18. Da qui l’escamotage degli anni e mezzi (di cui parlo tra un po’). E intanto l’Europa ci guarda! Il lenzuolo europeo è quello, è corto: dodici anni. A tirarlo di qua e di là si strappa. E si è strappato. Crac! Ma la separazione elementari-medie era impegno di campagna elettorale, soprattutto della filosofia selettiva della scuola della destra. Quale ragione c’era di separarle se non per orientare presto le differenze? Sapevamo che nella polemica sulla fusione non c’è una discussione psicologica sulle differenze tra infanzia e preadolescenza, né tra ambiti disciplinari e discipline, ma un vecchio-nuovo problema di classi sociali: separare il più presto possibile. Perfino già nella media, a leggere la bozza di DDL Moratti, che prevede "…la diversificazione didattica e metodologica in relazione allo sviluppo della personalità dell’allievo". L’antico rancore della destra per la scuola media unica riportato agli anni 2000. E’ quanto mai simpatico, inoltre, rilevare la schizofrenia della scuola media che da una parte viene inserita dentro la "scuola primaria", dall’altra viene ancora chiamata "secondaria di primo grado". Insomma ancora la belle ermafrodita che è sempre stata. E un tipico approccio doroteo: non scontentare nessuno, se si può. La continuità nel ciclo primario non può essere risolto con il gioco dei bienni, che si ferma a diplomatiche chiacchierate tra maestri e professori, e non è certo la troppo sinistra commistione tra docenti e classi. Eppure il ministro Giovanardi non vuole neanche questo. Separati, per carità! Vedo, invece, un forte attacco all’autonomia delle scuole: sia nel documento Bertagna che in questo DDL viene ridimensionata. Si vuol mettere "paletti ideologici" all’organizzazione didattica della scuola primaria, lasciando alla scuola dell’autonomia l’aggiuntivo. Traspare ancora l’apologia del disciplinismo, traspare un modello tayloristico dell’organizzazione della scuola e degli apprendimenti, traspare una rigidità inusuale rispetto alla nuova autonomia delle scuole. Mi appassiona poco, infine, l’enfasi sull’inglese e l’informatica. Campagna elettorale in prosecuzione. Ma niente di nuovo anche qui rispetto a quello che già si fa oggi, se non che con le preventivate 25 ore settimanali tuttologhe si vorrebbe fare di tutto! Anche il poco tempo e la fretta sono selettivi.
18 o 19 anni secondo il coito Ha fatto litigare i ministri la questione dell’ingresso dei bambini a due anni e mezzo nella scuola dell’infanzia e a cinque anni e mezzo nella scuola elementare. Ma cosa c’è sotto a questa bizzarra proposta? Era una vecchia idea della Falcucci (quella sì, dati i tempi, ormai emerita) che prevedeva l’iscrizione in prima elementare ai nati da settembre a settembre. La questione è perfino biologicamente interessante: un bambino nato a gennaio e un altro nato a dicembre sono, in prima elementare, spesso molto diversi. Ma qui non ci si deve dimenticare della vera questione di fondo: finire a 18 anni o finire a 19? Questa è la questione che si è elusa, tirando fuori l’escamotage delle iscrizioni spezzate sui mesi intermedi. Con questa bizzarria, infatti, solo un terzo dei ragazzi finirà a 18 anni, ma soprattutto non cambia il percorso di 13 anni. Possiamo dire all’Europa che la nostra scuola termina a 18 anni con questo piccolo imbroglio? E’ chiaro che i nostri futuri avvocati faranno 13 anni di scuola (come adesso), e che i nostri manovali pasticceranno in una qualche aula almeno (si dice) per 12 anni (meno di adesso). La novità, dunque, non sta nell’architettura dei cicli (nella loro durata complessiva che rimane per la grande maggioranza di tredici anni), ma nel periodo in cui papà e mamma hanno fatto all’amore. Straordinario! Ho fatto qualche calcolo sulle ipotesi del 30 aprile (qualche solerte burocrate avrà fatto i conti): gennaio-aprile è il quadrimestre in cui nascono più bambini (per papà e mamma nove mesi prima era primavera-estate…). Se l’inizio della frequenza elementare fosse dei cinquenni nati fino ad aprile, i frequentanti sarebbero abbastanza di più di un terzo. Quindi ci sarebbe una bella "ondina anomalina" la prima volta che questo meccanismo fosse applicato, con quasi metà delle classi in più. E sì che Bertagna sgridava l’onda anomala! Forse così si attenua la perdita di posti delle elementari per via della maestrona tuttologa. Mah! Il tutto mi pare grave, ma poco serio. Certamente si precocizza la scuola dell’infanzia come se fosse un gioco qualsiasi, la si riduce ad una dimensione ibrida, si strappano i bambini e quella scuola per la quale Bertagna faceva l’apologia. Ma che importa? L’importante, sono i licei, come sempre, da Gentile in poi. Il licealismo in Italia è una brutta bestia, ha condizionato anche Berlinguer, costretto al secondo modello 7+5 piuttosto dell’originario 6+6, ha condizionato il disciplinismo dei curricoli di De Mauro. Lo conosco bene. Con questo escamotage invece si vuole nascondere il problema: l’Italia non riesce a completare i propri cicli scolastici a 18 anni in 12 anni di scuola per tutti. Si inventa una sciocchezza pedagogica e Amen. Questa spigolatura deve anche pensare al destino delle cosiddette primine. Qui avremo due casi: o si vietano a tutti, oppure avremo bambini di quattro anni e trequarti in prima elementare. Oppure i figli dei ricchi e dei genitori nevrotici nasceranno tutti tra gennaio e aprile. La pedo-ostetricia. Solo i poveracci potranno amoreggiare senza queste preoccupazioni. Un tema serio come la relazione tra età biologica e scolarizzazione nasconde un tema molto più grave: si abbandona l’orizzonte europeo della scolarizzazione in dodici anni. L’impossibile quadratura del cerchio!
La confusione secondaria Sull’area secondaria tira invece aria di imbarazzante confusione. Sembra che quello che interessa davvero siano i licei (i soliti otto) ritornati al sole della loro quinquennalità. Scommetto dieci euro che nel liceo classico un emendamento chiederà che i primi due anni si chiamino ancora quarta e quinta ginnasio. E’, ovviamente, sul sistema professionale che la proposta si fa complicata. Si può dire che l’unico effetto di questa proposta sarà che una parte dell’istruzione professionale statale (in genere ottima) scivolerà nella formazione professionale regionale, mutuandone i modelli di certificati brevi, di semplice addestramento e di basso profilo professionale, che non piace neppure a Confindustria, che non ha bisogno di competenza manuali brute. Chi potrà cercherà di salvarsi saltando al liceo tecnologico, gli altri (prevedo dal 15 al 20 %) entreranno nel girone regionale. Si può dunque dire che si torna agli anni 50. E poi: in alcune regioni tutta l’istruzione professionale statale passerebbe alle regioni, in alcune altre rimarrebbe statale: devolution! O confusution? Ma qui nasce il guaio del federalismo. Una corretta critica è come sia possibile che la formazione professionale possa essere decisa con un testo di legge che "decide al posto delle regioni?". Se il Parlamento legifera sugli indirizzi generali partendo dal liceo e schiacciando il professionale, è evidente che alle regioni "rimane il resto", neppure un sistema duale ma un sistema resi-duale. Stato e regioni dovevano fare insieme. E invece… Resta il fatto che questa versione prima-i-licei e poi alle-regioni-il-resto, senza uno sguardo di insieme, sia la debolezza politica intrinseca della proposta Moratti. L’anima di destra vera di tutta la proposta: separare tra menti e mani. Ma anche il segno di una povertà di riflessione sul rapporto tra sapere e saper fare, oggi sempre più connesso in rapporto a qualsiasi professione e all’evoluzione delle tecnologie. Il rischio con questo sistema resi-duale è di titoli disoccupanti e frustranti, di selezione sociale e intellettuale. Forse Bertagna e soci non hanno letto bene i risultati degli apprendimenti dei quindicenni in Germania (patria del sistema duale) nella recente ricerca OCSE: sempre molto indietro a noi (a noi!). Forse non sanno del dibattito aperto in quel paese per superare il sistema duale, che sforna disoccupati analfabeti. Forse non si sono accorti che il primo paese per risultati di apprendimento è la Finlandia, che ha un ciclo di base lungo (senza divisione tra media ed elementare, come voleva Berlinguer) e un sistema superiore insieme formativo e flessibilmente professionalizzante per tutti, con un’ottima formazione permanente. Bertagna in una dichiarazione al Corriere della Sera ha detto "Così diranno che abbiamo fatto una scuola di serie A e una di serie B". In alcuni casi il silenzio è d’oro. Un’ultima spigolatura: con la proposta Moratti si deve in un qualche modo studiare tutti per almeno 12 anni, ma per nove anni si va a scuola tutte le mattine dell’anno scolastico (in qualsiasi accidenti di aula si sia messi), per gli altri tre anche lavorando; se si vuol diventare dottori invece bisogna farsi un annetto in più. Chi non farà questo avrà (forse) delle multe. Stop. Modernissima idea dell’obbligo scolastico.
Una critica pragmatica e valoriale Pur nell’impasse derivata dalla bocciatura del governo, è evidente che l’esprit reazionario delle proposte sulla scuola di questi mesi non ha finito oggi la sua azione negativa. Questa destra, che cita Don Milani ma pensa a De Maistre, non si fermerà a questa primo, per quanto emblematico, blocco. Le contraddizioni sono, ormai tutte presenti. Sono le stesse di sempre: per cambiare la scuola ci vogliono valori, ci vuole la politica, non bastano slogan elettorali. Ma non c’è solo la bocciatura del governo. Naturalmente il testo Bertagna rimane l’anima profonda di questa pedagogia reazionaria, ma forse è un’anima che ha minor consenso di quanto si creda, perfino minor buon senso di quanto si creda. Insomma, il primo esplicito manifesto pedagogico di una nuova destra reazionaria non ha avuto i boatos che molti si attendevano. Quindi: non è finita. Quindi: non è affatto vero che tutto è scontato. Mai dire mai. Bisogna dunque reagire, ma non servono le demonizzazioni, basta un po’ di ragionevolezza critica. Ho sempre detto che la critica migliore a questa proposta non è ideologica o sentimentale, ma molto pragmatica: non funzionerà, farà più danni di quelli che intende risolvere. Costerà di più in termini sociali ed economici, sarà culturalmente più bassa e inutile. Ho già detto nel precedente articolo che la proposta Bertagna è figlia del conservatorismo compassionevole americano. Peccato che Bush abbia cambiato rotta e fatto una nuova legge bipartisan con i democratici, ben diversa dal modello italiano. In sostanza, credo che questa politica, con maggiore o minore consapevolezza, di fatto rischia di descolarizzare il paese, privatizzerà i bisogni formativi, strapperà il tessuto di comunità eterogenea che la formazione di tutti i cittadini aveva nella scuola pubblica democratica. Questo, in ogni caso, accadrebbe. Soprattutto sono convinto che il modello non funzionerà né sul piano delle opportunità e neppure su quello della relazione tra formazione, mercato del lavoro, formazione long life. E’ l’impianto che non tiene conto della modernità. Questa oggi non chiede "piani di studio" e "dualità" (che sono "resi-dualità"), ma un pensiero più di fondo sul destino delle menti e dei cuori di tutti (ma proprio tutti) i nostri futuri cittadini. Questo destino è bipartisan, e interessa tutti. Ci dice di avere maggiore ottimismo sulle menti di tutti, maggiore apertura all’eterogeneità, tempi più distesi e comuni per tutti.
A proposito di Barbiana Tra le tante azioni ottimistiche possibili, nel precedente articolo avevo proposto di ripartire da Barbiana. Moltissimi mi hanno scritto, telefonato, o parlato su questa mia idea, anche per ricucire con Don Milani. Ho ricevuto biografie straordinarie di numerosi colleghi. C’è voglia, se ne parla. Io non scherzavo. Ma c’è una novità, anzi due. Vorrei andarci…il 25 aprile. Serve che spieghi il perché di questa data? C’è da ricucire un valore comune della nostra società e della nostra democrazia: libertà, equità, laicità sono cose valide oggi come sempre. Vorrei andarci senza pompe, senza "adesioni formali di organizzazioni", senza cofee break, senza striscioni e discorsi ufficiali. Non ci sarà neppure uno stand per la porchetta né la bancarella dei libri. Vorrei andarci e basta. Chi vuole, chi lì vuol dire delle cose, lo deve fare a titolo personale e privato. Questo non perché ho qualcosa verso i sindacati o i partiti (anch’io ho le mie simpatie), ma perché questo è il momento di andare oltre a qualsiasi schieramento precostituito. La scuola e l’educazione, i suoi valori forti, sono costituzionali e valgono per tutti. Ho incontrato in questi mesi tante persone deluse dalla politica ma affamate di valori, alla ricerca di senso senza tanti orpelli e apparati. Per questo vorrei un 25 aprile ingenuo a Barbiana. Se volete venire, andate a caccia delle informazioni che spargerò su Internet man mano. Qualcuno, ovviamente, può andarci in qualsiasi momento per gli affari suoi. Ma il 25 aprile staremo insieme, partendo da Ponte Vicchio e arrivando a Barbiana. Sulla tomba metterò un sassolino. Duri, duri si deve essere, come le pietre. Arrivederci lì a chi vuol venire. Ravenna, 12 gennaio 2002 |
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